giovedì 14 giugno 2018
Le Havre è un porto che è diventato una città. Il suo paesaggio è fatto di container accumulati gli uni sugli altri, mentre treni e imbarcazioni si scambiano le merci in grandi depositi dove il tempo sembra faticare a imporre le sue regole. Quando si svolge esattamente Miracolo a Le Havre del finlandese Aki Kaurismäki? Nel 2011, l'anno in cui è stato realizzato, oppure in un momento indefinito del nostro passato recente? La moneta è già l'euro, qualche personaggio impugna un telefonino, ma per il resto tutto riporta agli Settanta, forse perfino ai Sessanta: l'abbigliamento, le acconciature, le abitudini, la mentalità e le stesse inquadrature, per le quali il regista sceglie – come suo solito – uno stile essenziale e geometrico, povero nel tratteggio e squillante nei colori.
Potrebbe appartenere a qualsiasi epoca, la favola malinconica del lustrascarpe Marcel Marx (l'attore André Wilms) e di sua moglie Arletty, che ha il volto spigoloso e magnetico di Kati Outinen, l'attrice prediletta di Kaurismäki. Lui, con quelle generalità che mescolano Proust al risveglio del proletariato, accenna ai suoi trascorsi di scrittore, ma forse è solo un suo romanzo. Lei lo aspetta a casa ogni sera, prepara la cena e intanto gli dà il permesso di prendersi un aperitivo al modesto bistrot lì all'angolo. Ma Arletty si ammala, finisce in ospedale e Marcel non capisce la gravità della situazione o magari sta facendo finta, seguendo la trama di un libro non scritto. Nessuna speranza, dicono i medici, ma la speranza non rispetta le previsioni e si presenta quando vuole, come vuole, magari con le fattezze di Idrissa (il giovanissimo Blondin Miguel), un ragazzino arrivato dall'Africa dentro uno dei container che a Le Havre incombono su tutto. A differenza degli altri migranti nascosti nel carico, Idrissa è riuscito a fuggire e adesso vaga tra il molo e il quartiere popolare dove Marcel attende, a parti rovesciate, il ritorno di Arletty.
Con l'arrivo di Idrissa all'improvviso il tempo si mette in movimento e noi finalmente capiamo in quale punto della storia ci troviamo: sarà anche una favola, questa di Miracolo a Le Havre, ma viene dal nostro presente, ci riguarda. Come ogni favola che si rispetti, è di noi – spettatori o lettori – che si sta narrando. La storia più importante è quella di Idrissa e del suo viaggio (vuole raggiungere Londra, dove vive sua madre), gli altri personaggi devono solo decidere se aiutarlo oppure ostacolarlo. Marcel non ha dubbi e non solo perché fa Marx di cognome. La solidarietà per lui è un sentimento istintivo, sostenuto dall'astuzia che si impara lavorando in strada. Gli abitanti del rione la pensano allo stesso modo e contribuiscono come possono, ma la complicità maggiore la fornisce il commissario Monet (impersonato da Jean Pierre Darroussin), un poliziotto che conosce troppo bene il mondo per pensare che un bambino, sia pure sprovvisto di regolari documenti, possa costituire una minaccia. La barca prende il largo con Idrissa a bordo e già questo sarebbe un miracolo, non fosse che qualcosa di inspiegabile è accaduto anche nella stanza d'ospedale in cui Arletty, qualche tempo prima, aveva voluto che le fosse portato il suo vestito giallo, testimonianza di una giovinezza sfiorita solo all'esterno.
A Miracolo a Le Havre può essere riservata la definizione di “poetico” a patto di ammettere che la poesia è la maniera più implacabile e diretta per riconoscere la verità. Nella sua delicata schematicità, il film offre più una delizia agli amanti del cinema (il cattivo della situazione, per esempio, è interpretato da Jean-Pierre Léaud, che nei Quattocento colpi di Truffaut era a sua volta un piccolo fuggitivo). E poi questa storia parla di mare, parla di porti: parla di noi.
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