martedì 29 luglio 2003
E il Demonio sorrise, perché il suo peccato prediletto/ è l'orgoglio che scimmiotta l'umiltà. Molti anni fa visitai anch'io la Fiera del Libro di Francoforte. Mi capitò così di incrociare una specie di conferenza-stampa che stava tenendo uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei, Ephraim Kishon, nato però a Budapest nel 1924. Mi è rimasta in mente una sua battuta ironica: «Anche se la fantasia è una delle basi necessarie della creazione letteraria, non c'è autore che ne possegga abbastanza da immaginare che esistono tanti libri all'infuori dei suoi». L'orgoglio dello scrittore è risaputo ed è spesso meschino, acre, acido (devo dire che l'unico da me conosciuto che ne fosse indenne era Luigi Santucci). La superbia, però, è equamente distribuita tra dotti e semplici ed è un altro scrittore, in questo caso un noto poeta inglese, Samuel Coleridge (1772-1834), a dipingerne un lineamento molto caratteristico. Lo fa inserendolo in uno dei suoi Pensieri del Demonio, quello sopra citato. L'astuzia satanica sta proprio nel confondere le carte e trasformare l'orgoglio in apparente umiltà. Non c'è bisogno di spiegare come questo accada, perché il "tartufismo" ipocrita è un vizio da cui è difficile essere sempre immuni. Quante volte sotto le formule di umiltà del tutto false si nasconde un gigantesco Super-Io che attende smentite, lodi, assicurazioni di stima. La vera umiltà è, infatti, una virtù ardua, esigente e soprattutto teme l'ostentazione. Anzi, se è esposta al sole, subito deperisce e muore. Un altro poeta inglese, più vicino a noi, Thomas S. Eliot, scriveva che «l'umiltà è la virtù più difficile da conquistare; niente di più duro a morire è il desiderio del pensare sempre bene di se stesso».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: