giovedì 16 aprile 2020

Già prima di prendere posizione sugli assetti del settore dopo il coronavirus, Giorgio Armani aveva scritto recentemente su una rivista specializzata una lettera programmatica per una riforma del sistema moda, mostrando una chiara volontà di cambiamento. È un fatto degno di essere ripreso. Il sistema moda è uno dei più impattanti (il secondo, per l’esattezza) dal punto di vista dell’inquinamento ambientale. Per produrre un paio di jeans occorrono varie decine di litri d’acqua, per non parlare della tossicità dei composti chimici per trattarne il tessuto. E ci stiamo riferendo a uno dei capi di abbigliamento più popolari al mondo. Armani si rifiuta di cedere alla moda veloce (Fast Fashion) tendenza ormai ben avviata, per cui le collezioni cambiano incessantemente. Il celebre stilista si rifiuta di pensare che una giacca, dopo solo tre settimane di vita, sia già obsoleta e debba essere sostituita da un’altra non di molto dissimile. Si rifiuta anche di pensare che la spettacolarizzazione della moda debba continuare, con un impatto ambientale notevole per gli spostamenti da un mondo all’altro, tra Parigi Milano e New York.
A dir la verità, nelle sue parole non c’è nulla di nuovo. Già alcuni anni fa, una delle agenzie di tendenza più importanti, aveva pubblicato un manifesto contro la moda (Anti_Fashion. A Manifesto for the Next Decade). Si intuiva molto chiaramente che in futuro lo spazio sarebbe stato occupato dai cosiddetti Millenials che non vogliono inquinare la terra né seguire scioccamente tendenze effimere. Le parole di Armani sono certamente da salutare con molto entusiasmo, ma è anche vero che la moda, per essere ancora alla moda, non avrà altra scelta che mettersi al passo con i tempi. Per non diventare demodé, insomma, e per non essere superata in ciò che ha di più caratteristico: la capacità di dare un segnale del futuro.Se il sistema moda non si riforma e non riesce a mostrare di sapersi basare sui criteri oggi necessari, avrà smesso di essere quello che è stato dal XVI secolo in poi.
La moda è un segmento essenziale del sistema occidentale capitalistico e liberale, non solo ne è la manifestazione, ma in un certo qual modo ne è la quintessenza. Finora la percezione del tempo e dell’avvicendarsi delle stagioni nel tessuto sociale delle grandi città è stato segnato dalla frequenza delle fashion weeks. È la moda che ha creato la percezione del tempo nelle società occidentali, e non certo il contrario. Studi fondamentali – penso a Elisabeth Wilson – l’hanno dimostrato. Ora che tutto si ferma, la moda non può più dare il ritmo: è una conseguenza palese. Se non riesce adintegrare una nuova percezione del tempo, la moda sarà la prima a non essere più di moda, e anche gli abiti non riusciranno più a dire questo cambiamento. Anche per questo fenomeno, del resto, non mancano i precedenti. Un esempio? L’usanza di vestire di abiti in nero, al di fuori delle uniformi, è una delle caratteristiche della storia del vestire occidentale moderno ed è nata in Italia dopo la Grande Peste e si è diffusa in tutta Europa. A dirlo sono gli storici. Il Vangelo, dal canto suo, ammoniva: «E perché siete così ansiosi per il vestire?» (Mt 6, 28).

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