giovedì 5 dicembre 2019
«Natale non è Natale senza regali», si lamentò Jo, sdraiata sulla coperta. «È così spiacevole essere poveri», sospirò Meg, abbassando lo sguardo sul suo vecchio vestito. «Non è giusto che alcune bambine possano avere tutto ciò che desiderano e altre non abbiano niente», aggiunse la piccola Amy, tirando su con il naso con aria offesa. «Però abbiamo il papà e la mamma, e la compagnia una dell'altra», disse Beth, compiaciuta dal suo angolo...».
Rileggere l'incipit di “Piccole donne” può essere utile a chi avesse ancora un dubbio su cosa regalare a Natale. A me è servito per ricordare. Era il dicembre del 1993. Lui si chiamava Mario, e pochi mesi dopo sarebbe morto. Si dice che sono sempre i migliori quelli che se ne vanno troppo presto. Non è vero. Mario non era il migliore, e chi ha provato la fatica di lavorargli accanto, lo sa. Qui ad Avvenire, ma anche fuori, era per tutti “il presidente”: un po' per rispetto dell'età, e un po' per riconoscergli una diversità superiore. Permaloso e brontolone, terrore dei più giovani: arrivava ciondolando, portandosi addosso il cappello d'ordinanza, un loden verde che aveva fatto troppi tagliandi, e quel naso triste come una salita identico a quello del suo amico Gino Bartali, pieno di cose e di storia. Sbucava in ufficio lasciando l'impressione che fosse fermo dietro l'angolo già da un secolo. Lo scrivo ora e mi volto, forse era qui anche adesso.
Però era un grande cronista di strada, il randagio che molti di noi avremmo voluto essere quando ancora vivevamo nell'illusione poetica di questo mestiere. Infatti non aveva casa, quella la lasciava ai suoi gatti. Mario viveva in redazione, e il suo garage era lo stadio. O la macchina con cui seguiva uno dei cento Giri d'Italia di cui ha scritto. Ma poi a casa, prima o poi, ci doveva tornare. Ed era solo, profondamente solo. Con i suoi ritagli di giornale, la poltrona sfondata, la dignità di chi non chiede mai nulla, il frigorifero desolato e il telefono al quale non voleva cedere per domandare compagnia. Per questo, quella vigilia di Natale del 1993, lo chiamai. Per me, più che per lui. Perché a Natale abbiamo tutti l'anima più stropicciata. Con il senso di colpa che galoppa, e la voglia di dimostrarci più buoni e attenti, soprattutto con chi la bontà non la incontra mai. È allora che capisci che a Natale per i regali non bisognerebbe spendere soldi, ma tempo. E che non importa cosa trovi sotto l'albero, ma chi ci trovi intorno. Mario, l'albero nemmeno lo aveva fatto. Non lo faceva più da anni, mi disse, per non doversi obbligare a pensare che quello era un giorno particolare. Quando sei da solo a guardare il calendario, il 25 dicembre è diverso dal 23 o dal 27 solo perché è scritto in rosso. Troppo poco per festeggiare. Soprattutto se non hai nemmeno una bottiglia da stappare.
Vincendo i suoi «ma figurati, non ti disturbare…», gliela portai io, a casa: era una bottiglia di latte però, perché il vino gli faceva male, insieme a un panettone e un pensierino impacchettato. Ma era altro che volevo dargli quando mi aprì la porta: il dono più azzeccato per lui, e per tutti quelli come lui. Un abbraccio, il regalo più grande: taglia unica, sempre perfetto perché si può restituire. Mario ci rimase un po' stranito, a queste smancerie non era abituato né gli piacevano. Ma mi sorrise forte, dopo aver spolverato via l'imbarazzo. Si commosse anche, perché si crede di non aver bisogno di nessuno solo finché ci si accorge di non avere più nessuno.
Passammo un'ora insieme, seduti al tavolo, a parlare di niente. Eppure quando me ne andai, mi disse che non aveva mai scambiato tante parole in vita sua. Era stata una grande festa, in due, con un bicchiere di latte. «Che bella serata. Adesso posso anche andare a dormire. Grazie, ci vediamo domani al giornale...»: mi salutò così, chiudendo la porta come se fossero appena uscite cento persone. Mi aveva insegnato che nella vita occorre imparare ad amare ciò che si desidera, ma anche ciò che gli assomiglia.
Grazie Mario, ovunque tu sia ora. E buon Natale.
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