martedì 7 marzo 2017
In pagina «il morire», di solito tabù: temuto o desiderato, esorcizzato o interrogato, maledetto o celebrato... Qui non parlo di leggi, ma del “mistero”. Per noi in letteratura Dante, Leopardi, Manzoni e via via, ma l'argomento tocca anche scienza, sul “come”, filosofia e teologia, sul “perché”. Due facce, e con la morte si scontra da sempre il desiderio o la speranza che non sia «l'ultima parola»: vette vertiginose, montagne... Però in qualche pagina partoriscono topolini. Così su “Repubblica” (27/2) una pagina e mezza (36/37) di Alberto Manguel con titolo ad effetto – «Inferno» – carica di disinvoltura e sicurezze forse eccessiva. Inizio: «morte dice fine», ma per noi la parola è brutta e indigesta e allora la tesi è che «abbiamo deciso, molto tempo fa, che per noi non c'è una fine definitiva e irrimediabile. Chi lo ha deciso? Noi. Ed ecco in pagina lo «squadernamento» a soluzione di ogni enigma, «Da Dante agli induisti: guida all'oltremondo per sapere come saremo»! Segue una sterminata serie di citazioni, su migliaia di anni, Esiodo, Gilgamesh fino agli Inca, con quella predilezione per l'Inferno che dà titolo al tutto. Una cascata di esempi per riempire le quasi due pagine e concludere con trionfale sicurezza: «...la verità è che il nostro unico futuro possibile è il nostro passato... La verità è che siamo già i nostri fantasmi. Ecco perché questi regni ultraterreni ci sono così familiari». Fine della pagina, ecco la soluzione dell'enigma iniziale, fine della vita per tutti, e offerta di sicurezza tranquillizzante. Niente altro? Niente. Ma se si parla di «Inferno» vuol dire che qualche accenno ad un patrimonio detto ebraico-cristiano dovrebbe essere in tema, vero? Dovrebbe, ma qui non lo è: in sonno! Un tempo i giornali li chiamavano “efemeridi”: sono effimeri, durano un giorno solo. E talora sembra persino troppo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI