mercoledì 5 ottobre 2016
Visitare un museo è come passeggiare in un cimitero, il Monumentale a Milano, Staglieno a Genova, per non scomodare il Père Lachaise di Parigi. Un quadro nato per essere collocato in alto, su un altare, e quindi da vedere da sotto in su, nel museo è appeso al muro ad altezza d'uomo, magari accanto a un bodegón – come chiamano gli spagnoli certe sontuose nature morte, adatte alle sale da pranzo (la voce è registrata anche dal Dizionario Treccani).Il museo della lingua è il dizionario (ormai sinonimo di vocabolario, e anche di lessico) che allinea giudiziosamente le parole con la loro brava definizione, appunto come una lapide cimiteriale reca l'elogio del defunto; parole nate vive che risorgono in una poesia, in un romanzo, in un manuale. Con ciò non s'intende distogliere dal frequentare musei o dallo sfogliare dizionari: tutt'altro, ma si fa notare la compunzione tipica delle visite ai cimiteri, in cui, accanto alle tombe dei propri cari, ce ne sono tantissime altre di sconosciuti, magari attraenti ormai a livello artistico, aldilà della funzione per cui erano state pensate e costruite.Con giusta compunzione, dunque, si legge (e forse è stato scritto) L'italiano che resta, di Gian Luigi Beccaria (Einaudi, pp. 216, euro 17,50), ed è come passeggiare in un bel cimitero museale. Il celeberrimo linguista, non giovanissimo (è mio coetaneo), ricapitola in queste pagine decenni e decenni di lavoro sulle parole o, per meglio dire, pudicamente confessa il suo lunghissimo amore per la lingua, una lunga fedeltà inevitabilmente sfiorata di nostalgia.Non ha clamorosi rimpianti, Beccaria. Sa benissimo che la lingua evolve, parole muoiono, parole germogliano, ma essendo anche critico letterario, il filologo non può non notare negli scrittori d'oggi la perdita del senso della tradizione, di quando i libri nascevano da altri libri, in una continuità che dava vitalità alla lingua.Preziosi i consigli sulla lettura, «applicazione più lenta rispetto al vedere», antidoto efficace alla superficialità della nostra epoca "veloce", banalità di una cultura fatta d'immagini che scorrono sul piccolo schermo di un tablet.Sàpide le riflessioni sulla scuola, fermo restando che «compito importante di un insegnante è quello, se può, di provocare incontri con qualche grande libro, con un classico». E un classico «è un testo che ha il vantaggio di essere pluridirezionale: è come il mondo, la totalità del mondo, un universo che ha infinite strade, direzioni, tutte percorribili, a vari livelli».È splendida la spontaneità con cui Beccaria accosta riflessioni proprie a citazioni di autori «talmente amati che immortali parvero» (direbbe Ungaretti), con un posto speciale per Giorgio Caproni, poeta, lettore, critico esemplare: «Pochi hanno parlato così a fondo di sé parlando con acume critico degli altri».Inevitabilmente ci sono anche osservazioni sugli errori di grammatica, sulle uniformazioni forzate o piovute dall'alto. Beccaria, peraltro, è rassegnato all'imposizione del Consiglio d'Europa di considerare invariato «euro» al plurale, mentre i francesi e gli spagnoli dicono euros, i finnici eurot, gli svedesi euroma, tutti plurali.Ci sarebbe da perdersi nelle citazioni. Ci limitiamo a segnalare accentuazioni da evitare: «édile, Fríuli, guáina, móllica, rúbrica, sálubre, ínfido, púdico, bócciolo, baláustra, íncavo, társia, termíte (per indicare l'insetto, anziché il composto metallico usato per le saldature)».«Oggi nel mondo esistono circa 5000 lingue – scrive l'autore –. Entro la fine del secolo potrebbe sparirne la metà, i più pessimisti prevedono addirittura il 90 per cento». Che fare? Se il sovrano del linguaggio è l'uso (che Manzoni scriveva con la maiuscola, «Uso») non si può mantenere artificialmente in vita lingue in disuso. «Pace amen», come dice Beccaria in altro contesto.
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