giovedì 19 luglio 2018
Di Sergej Ejzenštejn (1898-1948) si fa spesso un gran parlare per via della Corazzata Pötemkin, il suo capolavoro del 1925, recentemente restaurato in concomitanza del centenario della Rivoluzione d'Ottobre e passato in proverbio – poco onorevole, ma comunque proverbiale – per via di una gag di Paolo Villaggio in uno dei suoi Fantozzi. Ci si può scherzare finché si vuole, ma Ejzenštejn è il cinema e senza Ejzenštejn il cinema non sarebbe quello che conosciamo, Fantozzi compresi. Una filmografia relativamente esigua, la sua, se è vero che nei cinquant'anni di vita – e venticinque di carriera – del cineasta sovietico trovano posto una decina di opere compiute e una manciata di incompiute, tra le quali spicca il magnifico Que viva Mexico!, nel quale il paesaggio allucinato dell'America Centrale subentra alle atmosfere del Grande Nord. Nella storia del cinema il nome di Ejzenštejn evoca la poetica del montaggio – che proprio nella Corazzata Pötemkin ha una delle sue vette espressive – e il dramma del dissidio fra l'artista e il dittatore, espresso in forma plastica nella trilogia mancata su Ivan il Terribile (l'autore riuscì a portare nelle sale solo la prima parte, datata 1944), sulla quale lo stesso Stalin esercitò un controllo tanto stretto da sfociare nella persecuzione.
Ejzenštejn, insomma, è uno di quei registi per cui si fatica a scegliere un unico titolo emblematico. Tanto vale lasciarsi guidare dalla cronaca degli ultimi giorni, tra la dubbia celebrazione dei Mondiali di calcio a Mosca e l'ancor più dubbio vertice bilaterale fra Putin e Trump (sentire quest'ultimo che minimizza il Russiagate è un po' come immaginare Bruto che imputa la morte di Cesare a un incidente domestico). A quale prezzo il Cremlino cerca di imporre la propria supremazia? Una risposta viene da un altro dei film capitali di Ejzenštejn, Aleksandr Nevskij, realizzato nel 1938 con il fondamentale contributo del compositore Sergej Prokof'ev. È il momento in cui il cinema, che fino ad allora non ha conosciuto se non per via indiretta la dimensione del suono, scopre di non poter più fare a meno di musiche e voci. Lo stesso montaggio, che nasce come partitura visiva in sostituzione di un'impossibile partitura sonora, deve adeguarsi e ripensarsi, come accade appunto nell'Aleksandr Nevskij, che è un poema per musica e immagini nel quale l'epopea della Rus' medievale è ripensata sotto l'urgenza della cronaca politica. La metafora è chiara, chiarissima: da una parte c'è l'eroe nazionale, che sullo schermo ha il viso nobile e corrucciato dell'attore Nikolaj Cerkasov, dall'altra c'è l'avanzata dei cavalieri teutonici, automi senza volto destinati a sprofondare nella trappola del lago ghiacciato nella quale sono stati trascinati dallo stesso Nevskij.
Quale che sia la patria alla quale si ritene di appartenere, questo di Ejzenštejn è un film che non si riesce a guardare senza sentirsi immediatamente e irrimediabilmente patrioti. Noi contro loro: che cosa potrebbe esserci di più semplice? Niente, in effetti, e le vicende della Seconda guerra mondiale, con la battaglia di Stalingrado a fare da discrimine, sono lì a dimostrarlo. Peccato che nel 1939, un anno dopo l'uscita di Aleksandr Nevskij, il patto Molotov-von Ribbentrop suggerisca un altro scenario, del tutto innaturale. Non bisogna mai chiedere saggezza al cinema, perché rischierebbe di dispensarne troppa. Ma guardate le armature che Ejzenštejn vuole per il suo film, osservate come si muovono gli eserciti e come gesticolano i condottieri. Fantozzi a parte, neppure Il Signore degli Anelli o Il Trono di Spade esisterebbero senza questo precedente. Perché il cinema è sempre politico, specie quando sembra che stia trascurando la politica.
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