giovedì 27 febbraio 2020
Da tempo abbiamo rimosso dal nostro linguaggio sociale, politico e istituzionale la parola statista, soppiantata dal più popolare leader e dal più rassicurante capo. Sappiamo che il leader è uno che motiva e che adotta il pronome 'noi'; il capo è uno che comanda e ha familiarità con pronome 'io'. Entrambi promuovono, misurano e controllano il consenso e il successo in una prospettiva per lo più personale e di breve termine. Ben altri sono il compito e l'orizzonte dello statista, chiamato a guidare e decidere, spesso in solitudine, per la propria comunità e per il proprio popolo: come il Mosè dell'Esodo che sta davanti e non in mezzo alla sua gente ad annusarne e solleticarne gli istinti; come il Pericle di Tucidide che «guida il popolo più che essere guidato» (Tucidide, La guerra del Peloponneso 2, 37-41); come ogni politico degno di questo nome che deve farsi carico del destino delle persone che è stato chiamato a rappresentare. A differenza del leader, lo statista conosce più il crucifige che l'osanna. Non conforta vedere al vertice delle istituzioni presunti statisti e alla base una moltitudine di piccoli presunti superuomini che danno vita a una sorta di niccianesimo di massa. Nani sulle spalle dei nani, con vista zero.
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