domenica 22 dicembre 2002
"Ne l'orto il melo ha l'aria di un disegno./ Il vento macina la neve./ Le campane imbastiscono il corredo/ per il freddo di Natale./ L'anguilla tradizionale sfrigola nello spiedo./ Il micio dorme sul leggiadro/ tappeto del colore delle mandorle acerbe;/
la luce d'un tizzo si riverbera/ nella cornice dorata d'un quadro. In questo delizioso quadretto del poeta ferrarese Corrado Govoni (1884-1965), tratto dalla raccolta Armonia in grigio et in silenzio (Scheiwiller 1989), c'è un po' tutto il "colore" del Natale. Ci sono le sensazioni che si provavano fin da piccoli, i sentimenti che ritornano ad affiorare nella nostalgia
anche oggi, quando non è più la campagna ad accoglierci ma la città senza focolare, campane, meli e orti. Tutte cose belle e suggestive, certamente. Ma è attorno ad esse che si consuma da tempo un equivoco, che rende il Natale una festa appunto di "colore". La fede autentica è, sì, sostenuta dai simboli ma non si esaurisce in essi. Si nutre anche di emozioni, ma è ben altro e va oltre. È per questo che, senza rinunciare all'infanzia e al «paese abbandonato/ tra le dense nebbie,/ dolcemente scampanante,/ al presepe tappezzato/ di borraccina e di ghiaia rilucente» - come dicono altri versi di Govoni -, è necessario procedere verso il cuore del Natale, verso l'evento che sta alla sua radice, verso l'incontro d'amore e di vita con Dio e col fratello. Ci guidano, allora, i versi di un altro poeta, David M. Turoldo: «Vieni, Signore,/ spada di fuoco/ fra tenebre e luce:/ linea fulminante/ ove si consuma la notte».
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