giovedì 10 marzo 2022
Angelo Manfredi (Milano 1962) è un docente universitario di Reumatologia, socio corrispondente dell'Istituto Lombardo, Accademia di Scienze e Lettere. Le sue prime poesie sono state selezionate da Franco Fortini per Pace e guerra. Nel 1985 è uscito il volume Senza memoria, con una prefazione di Alberto Asor Rosa. Nella collana "Poesia" della Nave di Teseo appare ora Dio della mia giovinezza (pagine 192, euro 22,00), un libro stupefacente. Stupore per la poesia in forma di prosa, stupore per le fotografie firmate dall'autore stesso che scorporano particolari che si potrebbero scorgere dalla finestra di un ipotetico quadro di Edward Hopper: uno scorcio di padiglioni industriali, una fuga verticale di balconi in periferia, grovigli vegetali che coprono macerie. È giusto partire da queste necessarie fotografie per cogliere la poesia di Manfredi che non conosce versificazione e non è prosa poetica, bensì poesia del dettaglio che esprime l'intero, come in Francis Ponge ma con sentimento: «La nebbia sale. Bagna le coperte, i vestiti. Nel sonno / interrotto. Un dolore così duro. Una libertà così grande». Gli interlocutori sono un tu (sottinteso) femminile che si conclude in stanze d'ospedale: «Sento il tuo respiro, la mano sul braccio. / Continuo quel che facevo. Non mi volto. / Tengo gli occhi chiusi perché tu non vada via»; «Sono io l'ombra / che accompagna te viva / con luci non mie, per corridoi che non riconosco». C'è una madre finalmente riscoperta: «Ti vedo solo ora madre ed è davvero cosa mirabile agli occhi sconfiggere il drago senza neppure come San Giorgio scudo e corazza, chinarti sul mio dolore e puoi scioglierlo se vuoi anche se non ci sei». E il padre è un Dio antropomorfo: «Dicono che diamo a Dio i tratti di nostro padre - fai splendere il tuo volto su di me, Dio così poco onnipotente, minuto nei vestiti troppo larghi, quel Dio che sorrideva». Ci sono le bambine e, tenerissimo, un bimbo: «Ti aspettavo e non ti aspettavo. / Ti aspettavo ma non così piccolo. / Così leggero da prendere in braccio. / Non che tu potessi, solo toccandomi - le ciglia lunghe / come quelle del principe in una fiaba orientale / chiudi gli occhi, mi sfiori il collo - lenire questa cosa a cui non so dare nome». Buttati là, isolati (ma sono legami), ricordi improvvisi: «J'ai deux amours scritta da Vincent Scotto per Joséphine Baker» (conosco benissimo la canzone: mio padre mi faceva ascoltare il disco a 78 giri): oppure: «Montale al Gabinetto Vieusseux preparava le occasioni». Nonostante il titolo, quella di Manfredi non è poesia "religiosa" nel senso corrivo dell'aggettivo. Dio è più spesso sottinteso, è visto nei particolari delle cose, sta nella scrittura, tra parola e parola, sillaba e sillaba senza ricercatezze (un solo termine tecnico: "edentulo", cioè sdentato. Manfredi è pur sempre un medico), né reticenze. Spontaneo candore del sentimento: «Sempre vento dal mare, senti i gabbiani / Gli anni passeranno leggeri, tanto puro è il mio amore».
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