mercoledì 17 dicembre 2008
Intelligentissimo, informatissimo e anche divertente questo Recensire di Massimo Onofri (Donzelli, pp. 160. euro 15) che spiega il come, il quando, il chi, il perché e anche il dove di quell'ibrido genere letterario che è, appunto, la recensione. «Ibrido» tanto per usare la prima parola che viene sui tasti, per indicare alla meno peggio il coesistere di quel tanto di informazione e di quel tanto di critica in cui la recensione (proprio la recensione giornalistica, quella che io sto scrivendo e che voi state leggendo) consiste.
Onofri non è uno che le manda a dire, e infatti il libro è fitto di nomi e cognomi di simpatizzanti e antipatizzanti (con prevalenza di questi ultimi), il che ha suscitato nelle scorse settimane un dibattito sulle pagine culturali (se così si può dire) di quotidiani e di ebdomadari, vivace come da tempo non si ricordava. Va anche segnalata la tempestività editoriale, perché Onofri riferisce interventi dello scorso ottobre in questo libro finito di stampare il 14 novembre.
Veniamo al dunque. Agganciandosi, un po' pretestuosamente, alla metafisica leibniziana, Onofri in apertura si chiede se la recensione dovrebbe intendersi come applicazione deduttiva di una Teoria della Letteratura, oppure se debba procedere induttivamente, cioè dati testi. È la seconda, naturalmente, la strada giusta, dato che il recensore è (dovrebbe essere) innanzitutto un lettore, ma non un lettore-lettore, bensì un lettore che non può fare a meno di raccontare (e quindi di prendere posizione su) ciò che ha letto. Splendidamente: il critico è uno «che non può non riportare nella casa del senso - la propria casa - ciò che altri - gli scrittori-scrittori - hanno disperso in lande sconosciute».
Basterebbe questa frase per valorizzare un libro, ma in Recensire c'è anche ben altro. C'è la venerazione per le regole recensorie (informazione e valutazione) dettate da Cesare Cases nel primo numero dell'Indice dei libri del mese (1984); c'è l'elogio del riassunto, quando è già un atto critico; c'è l'ironia per la caduta di Cesare Segre dal palco della filologia al materasso della militanza giornalistica; c'è la presa di posizione a favore dello scrivere chiaro, pur ammettendo «i diritti dell'oscurità» con esemplificazione dall'amato Alberto Savinio (e, di passaggio, fendenti sul paludato vuoto critico di Carlo Bo e di Pietro Citati: di quest'ultimo, imperdibile, la recensione-non-recensione all'Uomo che non credeva in Dio, di Eugenio Scalfari, proprio su la Repubblica); c'è l'analisi del rapporto tra libro e autore (dell'autore nel libro) perfino attraverso le dediche autografe; c'è la presa di distanza dal buonismo di Emanuele Trevi, pur rispettabile; c'è il corpo a corpo con Antonio D'Orrico, che esercita la critica «privandola dell'unica sua autorevolezza e plausibilità»; c'è la nobile difesa della stroncatura come dovere di profilassi; c'è l'affermazione dell'inscindibilità del legame tra giudizio di valore e canone, dal momento che «l'interpretazione e la valutazione rappresentano la stessa ragion d'essere della critica in quanto tale», con nettezza ideologica. Il tutto con riferimenti ammirati a Giacomo Debenedetti, e severe condanne, fra gli altri, per Salvatore Niffoi e Milena Agus.
Personalmente, a parte i troppi «epperò», «all'uopo» e «giuoco» (parola che sloga la mandibola) condivido riga per riga e parola per parola tutto quanto il libro. Compresa l'autoreferenzialità che a qualcuno può far storcere il naso. A questo proposito l'unica lacuna (non piccola, peraltro) da segnalare è che Onofri sembra non conoscere le mie Letture, dove sono raccolte recensioni che autonomamente rispecchiano i criteri onofriani. Ma se ne potrà riparlare quando sarà pronta la nuova edizione, in allestimento.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI