mercoledì 11 marzo 2020
«In Lev Nikolaevic si esacerbava sempre di più il rifiuto della religione esistente, del progresso, della scienza, dell’arte, della famiglia, di tutto quanto era stato concepito nei secoli dall’umanità e lui si fece sempre più tetro. Era come se il suo occhio interiore si fosse posato solo sul male e sulle sofferenze degli uomini e fosse scomparso tutto ciò che c’è di gioioso, di bello e buono». Questa, nel 1881, è la “conversione” di Tostoj (così egli la chiamava) vista con gli occhi di Sof’ja, sua moglie, che la descrisse nella breve autobiografia che conclude il suo romanzo Amore colpevole, scritto nel 1913, pubblicato postumo, e ora rilanciato nella traduzione di Nadia Cicognini (La Tartaruga, pagine 208, euro 17). Sof’ja e Lev si erano sposati nel 1862: lei aveva diciott’anni, lui quasi il doppio. Nei quarantotto anni della loro vita coniugale nacquero tredici figli, quattro dei quali morti in tenera età. L’amore dello scrittore era possessivo e carnale; la moglie, pur accondiscendendo, sognava un rapporto più spirituale. La contessa Sof’ja Tolstaja ha una fama divisiva: c’è chi apprezza la sua dedizione al marito, del quale ricopiava i testi man mano che li scriveva; chi ammira il suo amore di madre che si prodigava nell’educazione dei figli, la sua generosità di sacrificare il proprio talento di scrittrice per dedicarsi alla famiglia. Ma c’è chi la descrive come una Santippe che tiranneggiava lo scrittore, isterica e aggressiva. Di fatto, i due litigavano spesso, anche se non smisero mai di amarsi. Entrambi erano divorati dalla gelosia: lei ripensando al libertinaggio del marito prima del matrimonio e sporadicamente rinfrescato anche dopo; lui sospettoso di ogni innocente frequentazione maschile della moglie. Entrambi con ripetute minacce di fuggire da casa (Tolstoj realizzò il progetto alla fine della sua vita), e/o di suicidarsi (Sof’ja si gettò in uno stagno, ma fu prontamente ripescata). Tutto questo risulta dal romanzo Amore colpevole, trasparentemente autobiografico. Anna, la protagonista, ha gli stessi sentimenti di Sof’ja, e la scelta del nome richiama Anna Karenina, il romanzo che Sof’ja non si limitò a trascrivere ma per il quale diede suggerimenti che Tolstoj accolse (tra le minacce di suicidio di Sof’ja c’è anche l’ipotesi di gettarsi sotto un treno, come Anna). Il “principe” è chiaramente Tolstoj, con la sua violenta intemperanza: nel romanzo, l’incolpevole e bellissima Anna morirà colpita dal pesante fermacarte di marmo scagliato dal marito, ipotesi inconscia e forse desiderata dalla donna. E Sof’ja aveva visto giusto sull’involuzione spiritualista, vegetariana e pacifista che parzialmente affascinò Gandhi; eppure fu lei stessa a farsi ricevere dallo zar Nicola II per chiedere il dissequestro di un romanzo del marito colpito dalla censura, e sempre lei a scrivere al sinodo ortodosso perché venisse tolta la scomunica a Tolstoj. Da sedicenti “amici” fu impedito alla moglie l’estremo saluto al marito morente, ma l’ultimo pensiero di Tolstoj, in smozzicate parole, fu per lei.
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