martedì 10 dicembre 2013
Con i tempi che corrono, spero che nessuno me ne vorrà se oggi mi dedicherò a un Elogio dell'Allegria, virtù così poco diffusa nel mondo del pallone, là dove s'è da tempo dimenticato che il calcio è un gioco. Voglio dunque parlare della Roma e dell'insolito apporto di sorrisi, spesso di autentica gioia e ancora di sinceri gesti d'amicizia da parte della squadra di Garcia: il tutto - va sottolineato - assume un significato particolare visto che il teatro di questa festa continua è lo Stadio Olimpico, spesso dato a gesta di ben altro tipo che preferisco dimenticare e a dibattiti coinvolgenti prefetti, questori, osservatori di polizia e comitati di vigilanza sempre preoccupati del tifo capitolino. Anche domenica a mezzodì - come in altre occasioni - i giallorossi sul campo hanno creato, anche contro la forte Fiorentina, un'atmosfera di giubilo che ha contagiato i giallorossi sugli spalti; e mentre i primi si esibivano in baci, abbracci e scappellotti per salutare il primo gol romanista di Maicon e quello del buon ritorno realizzato dal risorto Destro, il popolo festante dimenticava antichi malumori, cori insolenti, buu offensivi, tazebao aggressivi e scurrili. Facile, direte: basta avere una squadra imbattuta e al secondo posto in classifica e l'allegria è garantita. Ma non è vero: il senso di questa piccola felicità - una festa mobile che in quindici giornate di campionato è andata attraversando il Paese - nasce proprio dal campo, dalla squadra, dal suo comportamento, direi addirittura dalla tattica liberatoria esercitata dal tecnico francese che ha portato nel calcio italiano un certo esprit de finesse - diciamo arguzia invece di esasperato tatticismo - un po' di Olympià dato più ai sorrisi di Maurice Chevalier che alle lacrime di Charles Aznavour e anche quella leggerezza che sui campi francesi ancora si esercita nonostante gli investimenti miliardari degli sceicchi. Le imprese di Gervais Yao Kouassi detto Gervinho scandalizzano spesso i puristi eppure il suo dribbling non fanatico ma ispirato è benevolmente sopportato - forse anzi supportato - da Garcia, perché dai piedi del funambolico ivoriano scaturiscono non solo lampi di gioco che travolgono gli avversari ma anche assist prodigiosi e gol di mirabile fattura. Non bastano dunque le vittorie, per far così grande festa. Penso al bravissimo Antonio Conte, leader assoluto (più di Buffon, più di Pirlo, più di Tevez, più di Chiellini) della strapotente Juve, apparsomi ancora irritato dall'onorevole opposizione tentata venerdì dal povero Bologna; lui ha un carattere a dir poco battagliero, spinge la squadra all'assalto, invita i tifosi alla bolgia. E che dire del pacioso Rafael Benitez, presentatosi sabato sera con una grinta da Due Novembre dopo l'improvvido tre-a-tre impostogli dall'ardimentosa Udinese del sempre sofferente Guidolin? Lungo sarebbe l'elenco di espressioni tristi e rabbiose, di parole avvelenate e di malcelate paure: ecco perché voglio dire “grazie” a Garcia spirito sano che fra l'altro - non so se l'avete notato - tiene accanto a sé, in panchina, non solo il talismano Totti ma l'allenatore della scorsa stagione, quell'Andreazzoli che non vinceva molto ma distribuiva serenità e sorrisi. A proposito, che fine ha fatto Stramaccioni?
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