mercoledì 16 dicembre 2015
Retorica e dubbi hanno commemorato, nell'anno che sta per chiudersi, il centenario dell'entrata italiana nella Grande Guerra. Un contributo interessante, perché sintonizzato all'epoca, viene dal volume curato da Stefano Lucchini e Alessandro Santagata, per la Fondazione Corriere della sera, Narrare il conflitto. Propaganda e cultura nella Grande guerra (pp. 160, euro 14). Come è stata "narrata" la Guerra, mentre si svolgeva? E che ruolo ha avuto, specificamente, il “Corriere della sera”? I curatori hanno coniato un'espressione calzante: «disciplina della persuasione». Luigi Albertini, direttore del “Corriere”, convinto interventista, «si trovò diviso tra la volontà di difendere la libertà di stampa e l'acquiescenza nei confronti di un modello di giornalismo disciplinato e funzionale alla causa patriottica: un'antinomia che non sempre seppe risolvere, optando infine per un'informazione gestita "in nome di un alto interesse patriottico"». C'era, infatti, da risollevare il morale dei soldati, soprattutto dopo Caporetto, e c'era da convincere la popolazione che il massacro dei giovani al fronte non era del tutto inutile. Gaetano Salvemini, a distanza di tempo, osservò che «se il “Corriere” si fosse messo a predicare la neutralità ad ogni costo, l'intervento italiano non sarebbe stato possibile. Albertini non fu il solo autore dell'intervento, ma fu uno dei principali». Il “Corriere” raggiunse la tiratura di un milione di copie, e il suo direttore, di fatto, esercitava le funzioni di ministro degli Esteri al posto del titolare, Sidney Sonnino. Albertini mobilitò le firme più prestigiose del giornale, soprattutto Luigi Barzini, Arnaldo Fraccaroli, Ugo Ojetti, con la partecipazione straordinaria di Gabriele d'Annunzio, e nei loro resoconti, fedeli ai comunicati del Comando supremo, la guerra – spiega Andrea Moroni nel saggio – diventava un'eroica favola in cui i successi del nemico venivano minimizzati, i “ripiegamenti” dell'esercito italiano erano giustificati, e le scaramucce vittoriose assurgevano a gesta di grande eroismo. Che le cose non stessero esattamente così, i corrispondenti lo sapevano bene, e non lo nascondevano al Direttore nelle lettere personali che gli indirizzavano: ma “l'interesse superiore” (la ragion di Stato) finiva sempre per prevalere. Per esempio, «se Ojetti scriveva al suo direttore: “Molti ufficiali, e ufficiali superiori, sono di umor nero. Non si va avanti, dicono. Non si è andati avanti al momento buono, e ora si è lì fermi. La linea nemica si sfonderà, ma ci vorranno mesi», il “Corriere” raccontava di soldati “serenissimi”, degli alpini che salivano le vette quasi si trattasse di una gita, di una macchina organizzativa perfetta grazie alla quale «anche sulle cime più lontane e più alte ogni soldato ha avuto ogni giorno – e avrà – i suoi due ranci caldi».A proposito dei comunicati del Comando supremo, Alessandro Santagata pubblica l'incredibile prima stesura del comunicato di Cadorna dopo Caporetto (28 ottobre 1917) che gettava sui soldati la colpa della sconfitta: «La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignobilmente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sul fronte Giulia». La versione poi diramata attenuava l'accusa («La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso alle forze austro-ungariche...»), ma l'originale fu pubblicato in Francia e in Germania, alimentando la propaganda anti-italiana. Da questo drammatico episodio, che motivò la sostituzione di Cadorna con il generale Diaz, risulta l'inefficienza degli Alti Comandi ancorati a una strategia arcaica della guerra, senza contare il disprezzo nobiliare o altoborghese degli ufficiali, verso il popolino dei soldati, "carne da cannone".Mario Isnenghi, nel saggio, dà rilievo a Tullio Marchetti, straordinario battitore libero che quasi da solo riuscì ad allestire un servizio di intelligence della cui essenziale importanza i comandi si accorsero troppo tardi. Contro l'ottusità della burocrazia militare, Marchetti seppe utilizzare “L'Arena di Verona” (il giornale, fondato nel 1866, sul quale anch'io ho mosso i primi passi giornalistici), fornendogli notizie che gli altri giornali non avevano.Stringe il cuore vedere le prime pagine del “Corriere” di quegli anni, le tavole di Achille Beltrame per la “Domenica del Corriere”, e i fumetti del “Corriere dei piccoli” che incitavano all'orgoglio patriottico e all'odio verso il nemico, con patetiche scivolate di retorico lirismo. Con un po' di tristezza, sarà bene tenere a mente le parole di Giuseppe Prezzolini con cui Stefano Lucchini conclude la Prefazione: «Ogni popolo ha i padroni che si merita, e ogni padrone ha i servitori che si sa scegliere».
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