mercoledì 25 maggio 2016
Le mamme (almeno le mamme di una volta) quando un bambino rifiutava un cibo (per esempio, gli zucchini) dicendo: «Non mi piace», rispondevano: «Fattelo piacere», e magari gli servivano zucchini per qualche giorno di fila, avviando il pargolo a una dieta onnivora. Già, ma come si fa a «farsi piacere» una cosa che non piace? Proprio Farsi piacere è intitolato il versatile saggio di Emanuele Arielli che analizza «la costruzione del gusto» (Raffaello Cortina, pp. 176, euro 13). Innanzitutto: siamo sicuri che i nostri gusti siano davvero nostri? Ci sono propensioni più o meno innate, ma c'è l'educazione, ci sono componenti imitative e, per gli adulti, c'è la pressione delle mode e di tutta la strumentazione della civiltà mediatica. E ci sono, soprattutto, i desideri, magari in conflitto con pulsioni e attitudini, che stabiliscono «divergenze tra preferenze dichiarate e preferenze rivelate negli atti», cioè quello che gli psicologi definiscono «divario tra atteggiamento e comportamento». Viene in mente il fin troppo citato Nando Mericoni interpretato da Alberto Sordi (Un americano a Roma, 1954) che si imponeva cibi transatlantici, ma finiva per tuffarsi con voluttà in una marmitta di spaghetti (erano gli anni trionfali di Renato Carosone con «Tu vuò fa l'americano»). C'entra anche la chimica, e le neuroscienze hanno chiarito la differenza fisiologica tra piacere e desiderio: il piacere è il senso di benessere che scaturisce dal soddisfacimento di un bisogno, ed è indotto dal rilascio di endorfine, gli «ormoni della felicità», la cui insufficienza provoca gli stati depressivi; il desiderio è l'impulso a perseguire un piacere futuro, e viene attivato a livello neurofisiologico dalla dopamina.Inoltre in noi c'è anche una tensione tra realtà e aspirazione, ossia «tra un "sé percepito" (come ci vediamo) e un "sé voluto" (come desideriamo essere)», sia nella dimensione privata, sia in quella pubblica: in quest'ultimo caso diventa «la differenza tra il sé percepito dagli altri e il sé che gli altri vorrebbero che noi fossimo». Tutto ciò è espresso nella poesia che Jorge Luis Borges ha intitolato «Il rimorso», in cui chiede perdono ai genitori per aver commesso «il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice».La separazione e ricomposizione tra piano privato e pubblico riguarda la questione del rimodellare i propri gusti, cioè l'agire su di sé. Il nocciolo della riflessione di Arielli, che insegna Estetica all'Università Iuav di Venezia, è forse questo: «Mettere in discussione i propri gusti diventa una "pratica di libertà", un esercizio di distanza critica ma anche di esplorazione di punti di vista alternativi». Il libro non è un manuale di autoaiuto, ma contiene spunti interessanti. Per stimolare la curiosità, mi limito a elencare le 5 strategie di natura comportamentale, ossia basate sul fare, e le 5 strategie di natura mentale, cioè basate sul pensare. Sul fare: il «come se», il fare ironico, il lasciarsi influenzare dagli altri, il ripetere e l'uso del corpo; sul pensare: il «vedere come», il confrontare, il filtrare, l'usare il linguaggio, il rendere strumentale. In conclusione: definire le virtù classiche quali la prudenza, la frugalità, la temperanza e via dicendo, come «vincoli autoimposti e repressivi (e non piuttosto comportamenti che possono favorire l'indipendenza) è il vero tranello subdolo perpetrato contro gli ideali di autonomia individuale». E «l'esercizio di trasformazione delle preferenze è questo: lo sviluppo della capacità di prendere distanza da sé, valutare ciò che si desidera, sperimentare nuove prospettive e punti di vista sull'esperienza». L'esercizio di queste pratiche, confessa l'autore (che simpaticamente non è riuscito finora a farsi piacere la musica atonale), «mi ha fatto capire che io non sono i miei gusti, i quali hanno origine dal caso, dall'educazione, dalla biologia, dalla storia, dagli altri».
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