mercoledì 26 febbraio 2020
Platone (V-IV sec. a. C.) e Seneca (I sec. d. C.): due filosofi al potere che hanno fallito. Ma la loro sconfitta è un dato personale e contingente oppure sta a dimostrare che sapere e potere sono inconciliabili? Per entrambi il governo della città rappresentava, per usare le parole di Cicerone, l'espressione massima della virtù (usus maximus virtutis gubernatio civitatis). Per Platone, come il navigante deve rivolgersi al capitano e il malato al medico, così il cittadino dovrebbe rivolgersi al filosofo; ma al medico e al filosofo, cioè ai competenti, il popolo preferisce il retore e il sofista, perché i primi provvedono alla salute con cure anche severe, i secondi pensano al consenso con promesse e illusioni. Il filosofo, per Platone, non è un volontario ma "un costretto" della politica: il suo impegno è la risposta responsabile a una chiamata onde evitare il governo degli incompetenti: «né per ricchezze vogliono assumere il potere gli uomini buoni né per gli onori … Occorre dunque imporre loro una costrizione. Gli uomini di valore vanno al potere non come se raggiungessero un bene né per compiacersi di esso, bensì in stato di necessità» (Repubblica 347 b - c). Capiamo perché Cicerone nel Sogno di Scipione riserva un posto in paradiso ai politici, cioè a coloro che hanno sacrificato la propria vita per il bene comune.
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