martedì 23 febbraio 2021
Da quando l'Unione europea ha cominciato a elaborare norme che incidono sempre più in profondità sulle vite dei cittadini, è cresciuta l'attenzione alla galassia delle lobby, che cercano di orientare o condizionare le decisioni delle istituzioni. In parallelo, va avanti l'impegno per aumentare il grado di trasparenza delle istituzioni, in modo da rendere sempre più palesi le azioni messe in atto da imprese, associazioni di categoria e anche Paesi terzi, che tendono a influenzare a proprio vantaggio le scelte dei vertici Ue.
Non è un lavoro facile monitorare le mosse dei lobbisti, stimati già a inizio secolo in 20mila, senza contare gli studi legali. Altrettanto arduo è disciplinare la loro attività, per impedire pressioni o condizionamenti indebiti ai danni della legislazione comunitaria. Da un buon quarto di secolo il Parlamento di Strasburgo aveva introdotto un “registro dei rappresentanti di interessi”, al quale iscriversi ottenendo in cambio il diritto ad essere considerati interlocutori dei deputati. Esempio seguito dalla Commissione di Bruxelles nel 2008, riguardo ai contatti con “euroministri” e alti dirigenti del palazzo Berlaymont.
Tre anni più tardi Eurocamera ed esecutivo hanno riunito i due elenchi in un unico “registro per la trasparenza” e infine, il 15 dicembre scorso, anche il Consiglio ha accettato, dopo un'estenuante trattativa, il principio di un'unica “casa di vetro”, dove si può entrare e uscire solo facendosi riconoscere bene. Tutto ciò sempre in linea di principio, perché restano margini di ambiguità nelle regole, a cominciare dall'obbligo stesso di iscrizione al registro e alla quantità e qualità dei dati da dichiarare per essere riconosciuti lobbisti. Molti dicono che non si chiedono abbastanza informazioni per capire chi c'è davvero dietro a ogni rappresentante di interessi. Altri affermano che se ne impongono già troppe.
E così si comprende come mai di tanto in tanto le cronache europee continuino a riportare casi di scarsa trasparenza o di “connection” sospette. Un paio di settimane fa, ad esempio, è emersa la vicenda del gruppo di amicizia Ue-Cina, che a novembre 2019 aveva banchettato a tartine e champagne a spese di Pechino, senza che il suo presidente, l'eurodeputato ceco Jan Zahradil, rendesse pubblica la sponsorizzazione. Ne aveva l'obbligo? Lui nega, i suoi critici sostengono l'opposto e ora la questione è sotto esame da parte della presidenza di Strasburgo.
Poche settimane prima aveva fatto discutere una chiacchierata con Politico.eu di Aura Salla, capo della poderosa (e finanziariamente ben dotata) squadra di lobbisti di Facebook. Consulente della Commissione Ue fino a maggio 2020, la 36enne finlandese si era candidata invano due volte all'Europarlamento. Improvvisamente ha saltato il fosso andando alla corte di Zuckerberg, che da tempo ha contenziosi delicati con l'Unione. L'unico obbligo impostole dal suo ex-datore di lavoro – evitare per sei mesi contatti con gli uffici appena lasciati – è stato giudicato ridicolo dai suoi critici, non a torto preoccupati per possibili conflitti d'interesse.
La polemica ricorrente sulla “porta girevole” tra istituzioni Ue e grandi imprese è stata poi rinfocolata dalla richiesta dell'ex-commissario al Bilancio Gunther Oettinger, subito accolta dalla sua connazionale von der Leyen, di poter lavorare nell'impresa di consulenza Kekst CNC. Il difensore civico europeo ha eccepito: quella società, ha detto, fornisce servizi alla Philips Morris, gigante mondiale del tabacco, che l'Unione vuole combattere nel suo piano anticancro appena varato. Se non proprio una “vil razza dannata” come i cortigiani del Rigoletto, i lobbisti restano insomma una spina nel fianco dell'Ue. E la ricerca della trasparenza, come quella popperiana, è senza fine.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI