sabato 13 ottobre 2018
Immaginate una scena in cui il futuro scompare improvvisamente dall'orizzonte, la paura prende il posto della speranza, la solitudine individuale prevale su qualsiasi forma di comunità. Non è un incubo, non è una rivisitazione dell'Apocalisse e neanche la premessa di un nuovo test psico-attitudinale. È invece la condizione (reale) in cui vivono i quarantenni: "I rassegnàti", secondo la definizione scelta da Tomaso Labate nel suo bel libro generazionale appena pubblicato.
Confesso che ho ritrovato nel pamphlet una cronaca lucida e spietata delle sconfitte di questa generazione e che a tratti vi ho riconosciuto un "secondo tempo" di quella "Generazione Tuareg" che avevo descritto più di 10 anni fa. Fulminante nel libro di Labate una metafora pop, che equipara «l'occasione sprecata» finora dalla nostra generazione
al rigore sbagliato da Roberto Baggio nella finale dei Mondiali di calcio Usa del 1994: dagli undici metri fallirono giocatori esperti come Baresi e Massaro, ma della cocente sconfitta della Nazionale sarebbe stato consegnato alla storia (con il marchio dello sciupìo) solo il rigore di Baggio. Il più talentuoso degli azzurri. Proprio ciò che è avvenuto alla generazione dei quarantenni: la più globale, la più formata e la più coccolata, ma anche l'unica che ha perso diritti, opportunità e benessere rispetto a quelle precedenti. E che si è "perduta", smarrendo la capacità di sognare e abbandonandosi a una rassegnazione inerte.
La via d'uscita individuata dall'autore – alfiere (e psicanalista) dei quarantenni italiani – è una sorta di "partigianeria generazionale", una chiamata all'impegno della generazione sconfitta perché sposi tre concetti: conflitto, contrapposizione e coscienza. Mettendo nel mirino la generazione dei padri, che avrebbe illuso i figli promettendo loro benessere e serenità, mentre al contrario costruiva un modello di società a proprio vantaggio che avrebbe scaricato sui figli debiti, precarietà e rischi.
È una soluzione, quella tratteggiata da Labate, che ha il pregio di riportare le parabole iper-individualistiche dei quarantenni in una dimensione collettiva, per cercare di costruire un'identità e una serie di battaglie (finalmente) comuni. Ciò che manca è, tuttavia, una chiara indicazione dell'obiettivo finale. È la conquista del potere, in una logica puramente rivendicazionista che consenta di ri-equilibrare diritti e risorse pubbliche tra le generazioni? Sarebbe un obiettivo legittimo, ma inutile perché replicherebbe i gravi errori compiuti dalla generazione del Sessantotto.
La "rivoluzione possibile" dei rassegnati dovrebbe avere, a mio avviso, un obiettivo più sfidante: tirare fuori il Paese dalle secche del familismo amorale, delle tribù che si auto-riproducono attraverso meccanismi di selezione fondati solo sull'appartenenza e sulla fedeltà. Per costruire un modello sociale che possa giustificare scelte e nomine solo all'interno del perimetro delle competenze certificate, della qualità oggettiva. Una sfida titanica, anzi un sogno, che la generazione dei quarantenni meriterebbe di vivere.
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