
È passato in televisione un documentario che racconta dei senza tetto negli Stati Uniti (si intitola «Ultima fermata», vale la pena cercarlo). Tra gli intervistati, un uomo che nello Stato del Tennessee per qualche tempo ha trasformato la sua casa in una «Hobo House», una «Casa del viandante». Ha lasciato che dei senza tetto campeggiassero nel suo giardino, ha riempito di cibi il frigorifero, li ha fatti sentire completamente in casa loro. Lui, reduce da un collasso psichico e bisognoso di dare un senso nuovo alla sua esistenza, aveva deciso di lasciare il lavoro e incominciare a girare per le tendopoli dei dintorni. «Quando hai a che fare con persone così vulnerabili, la tua interazione con loro può sempre essere l’ultima» dice nel film, aggiungendo: «è sorprendente, dai a qualcuno per dieci giorni una tv, aria condizionata e un frigorifero da svaligiare, e quello sarà molto più in grado di prendere una decisione sulla propria vita di quanto non lo fosse una settimana prima». L’intimo imperativo che dopo la depressione aveva fatto decidere a quell’uomo di occuparsi degli altri, come per contagio si augurava si trasmettesse a quegli stessi altri, persone senza mezzi e senza casa. Diventasse lucidità di ripensare le loro vite. Così è stato: per un tempo troppo breve, ma è successo.
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