mercoledì 5 maggio 2021
Guia Soncini è una giornalista disinvolta, anticonformista militante, abilissima nello smascherare i tic dei neo-costumi della nostra epoca prona agli influencer. Il suo nuovo libro, con brutta copertina anni '70, si intitola L'era della suscettibilità (Marsilio, pagine 192, euro 17,00) e descrive il dilagante fenomeno sociale sintetizzabile in due espressioni: woke e cancel culture: woke, che Soncini traduce, appunto, con suscettibile, significa «che sei dalla parte dei buoni. Che sei sensibile alle ingiustizie sociali. Che non c'è giusta causa che ti sfugga»; cancel culture, cultura della cancellazione, è quando si pretende che un editorialista venga cacciato per aver espresso un'opinione diversa dalla propria (che peraltro coincide con l'opinione prevalente). La cancel culture italiana «è tra tragedia che diventa farsa; quando una catena di supermercati mette in vendita una felpa con vignetta tentativamente spiritosa in cui una donna viene uccisa, una parlamentare annuncia la propria clamorosa ritorsione: restituirà la tessera punti del supermercato». J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter (milioni di copie vendute, senza contare i film) è stata messa alla gogna per un tweet in cui «ha osato buttar lì che, invece di “persone che mestruano” sarebbe più sensato dire “donne”». L'aneddoto è ritenuto tanto importante (lo è) che Soncini lo riporta due volte, a pagina 24 e a pagina 165. C'è anche la premessite. Esempi: «Premesso che non voterei mai per Matteo Salvini, mi chiedo perché abbiate per anni alimentato col vostro consenso le molestie al citofono allorché fatte da troupe televisive, per poi individuarci un reato quando a molestare è un senatore»; «Premesso che non ho niente contro i grassi, non mi sembra un'idea felicissima farli andare in tribunale a costituirsi parte civile contro quelli che gli hanno detto che sono grassi». Quelle “premesse” sono un mettere le mani avanti per far passare un'opinione peraltro fondata. La premessite è una variante della preterizione, figura retorica che consiste nell'affermare di voler tacere qualcosa di cui tuttavia si parla, come quando si dice: “Non ti dico cosa mi è successo” e intanto lo si sta già dicendo. Ma il robusto filo conduttore del libro è «il feticismo della fragilità»: oggi gli adulti «invece di scrollare i ragazzini esortandoli a svegliarsi, hanno deciso di feticizzare la fragilità». Il capitolo più azzeccato è a pagine 175 e giustifica lo sforzo di essere arrivati a pagine 174 di un libro che (posso dirlo?) a lungo può diventare noioso. Il capitolo si intitola “Com'è cominciata: Diana, la dea della vulnerabilità”. È la demistificazione della leggenda di Diana Spencer, “la principessa triste”, epiteto che era già toccato, a suo tempo, a Soraya di Persia, ripudiata dallo Scià. «Diana pensava che tutti dovessero scusarsi con lei (non essendo in grado di amarla come e quanto meritava)»; «Nessuno ha mai superato l'intuito e la determinazione di Diana Spencer nel fare di sé un feticcio fragile», e così via, con argomentazioni ben documentate. Ricordo che Maria Gabriella di Savoia, in un'intervista televisiva dopo la morte di Diana aveva osservato: «Non era stata educata per diventare la moglie dell'erede al trono».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI