mercoledì 10 novembre 2010
È un vero peccato che un libro interessante come Psicologia sociale della moda, di Paola Pizza (QuiEdit, pp. 160, euro 14,80) sia stampato in carattere simil Helvetica come le istruzioni per l'assemblaggio dei mobili Ikea, o come i «bugiardini» dei medicinali: in un bel Garamond, o Aster, o Times sarebbe stato più leggibile e avrebbe dato una nota di intelligente leggerezza come l'argomento richiede. L'Helvetica è duro, allontanante, valido semmai per i cartelli stradali svizzeri (da qui il nome), rende faticosa la lettura, e solo i professionisti ostinati come lo scrivente arrivano all'ultima pagina. Ma la fatica vale la pena, perché l'autrice, che viene dalla Psicologia sociale dell'Università di Firenze e attualmente insegna al Polimoda della stessa città, ha compiuto un'analisi ben documentata sull'abbigliamento come identità, come fonte di conoscenza sociale, come comunicazione e relazione, arricchendo l'esposizione con esempi divertenti tratti dal cinema, dalla letteratura, dalla televisione. Fin dall'inizio siamo avvertiti: «Niente suona più falso della frase "Mi sono messo indosso la prima cosa che mi è capitata tra le mani". Dietro ai semplici comportamenti quotidiani ci sono pensieri, sentimenti, ricordi, desideri, e soprattutto ci sono gli altri: gli implacabili "altri" presenti dentro di noi anche quando fisicamente sono assenti». E ancora: «Questa è la pervasività del giudizio sociale: un dialogo continuo tra lo specchio interno dei nostri desideri e della nostra autostima, e lo specchio esterno costituito dagli altri e dal loro giudizio». A proposito di specchi: «Quando ci guardiamo allo specchio, con indosso un abito, è come se dietro quello specchio ci fossero gli occhi degli altri, le reazioni che gli altri hanno avuto nei nostri confronti, quelle che pensiamo potrebbero avere oggi, e quelle che auspichiamo per il futuro». Nel capitolo «L'abbigliamento come identità», l'autrice individua " seguendo Neisser " le varie forme di conoscenza di sé: il Sé ecologico è percepito in rapporto a un ambiente fisico (casa, ufficio, spiaggia, supermercato, eccetera); il Sé interpersonale deriva dall'interazione con gli altri; il Sé esteso è influenzato dai ricordi del passato e da anticipazioni del futuro; il Sé privato è costituito dalle esperienze personali; il Sé concettuale è formato dalla conoscenza di sé e dalla sintesi delle informazioni raccolte. Che l'abbigliamento c'entri in tutto questo è evidente, perché scegliamo un vestito a seconda dagli aspetti che intendiamo sottolineare, tenendo conto del ruolo che di volta in volta ricopriamo: «L'identità di ruolo tende a prescrivere determinate norme e comportamenti e suggerisce che cosa pensare e come comportarsi in specifiche situazioni connesse alla funzione, creando delle aspettative da parte degli altri». Anche l'etimologia aiuta: ruolo deriva da rotulus, il manoscritto arrotolato che conteneva la parte dell'attore. E tutti noi, giorno per giorno e di ora in ora, calchiamo diversi palcoscenici, magari rotanti. Un tipico esempio di adeguamento al ruolo lavorativo è, per le donne, il tailleur, femminilizzazione dell'abito a giacca maschile, «che comunica sicurezza, efficienza, indipendenza, determinazione» ed è diventato una sorta di divisa delle donne manager. La moda non è sempre la dittatura del conformismo di gruppo, ma la sua influenza è tale da determinare, per opposizione, anche la moda di chi la contesta. E per documentarsi sulla metamorfosi che la moda può imporre a una ragazza che se ne riteneva immune, basta rivedere lo straordinario film Il diavolo veste Prada (2006), in cui l'inesperta Andrea, sotto la guida dello specialista Nigel, riesce addirittura a conquistare l'approvazione di Miranda, la terribile direttrice della rivista di moda, superbamente interpretata dall'irresistibile Meryl Streep.
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