domenica 18 marzo 2018
Poco prima dell'alba e prima di mettersi in pista, si accontentavano di placare la fame rosicchiando un tronchetto di canna da zucchero o una fetta di polenta di manioca fredda, una banana o del granoturco. Poi, acquazzone, nevicata o sole tropicale che fosse, schiena curva e a piedi nudi, per garantirsi maggiore attrito sull'asfalto, le mani callose nella presa sul manubrio, si lanciavano su per la salita come dei Bartali e Coppi africani. I più "ricchi", pochini, avevano anche un cartoccio con due pezzi di pesce di lago seccato al sole. Per pranzo.
Quelle briciole di pasto non erano mai sufficienti per tenere a bada la vera fame, quella che sta oltre il semplice buco nello stomaco sempre vuoto. E quando guardavano la cima da scalare che s'impennava per chilometri in una salita di curve e tornanti da schiantare il fiato, la mancanza di certi principi nutritivi, indispensabili per lavorare, non ostacolava la loro testarda volontà di farcela. Accadeva anche nei bambini di dieci anni, magri come chiodi.
Senza esitazione, ma passo che incalzava passo, in fila indiana, gli uomini-cavallo sospingevano il loro fardello legato su un curioso mezzo di trasporto: un enorme monopattino, costruito tutto in pesante e grosso legno della foresta, senza un chiodo né una vite. Spingevano i velocipedi con le ruote di legno, traboccanti di merci, stipate all'inverosimile in altezza e larghezza: sacchi di carbone, caschi di banane, legna da bruciare, balle di stracci, taniche d'acqua. C'era da restare stupiti per come riuscivano a mantenersi in equilibrio.
Nell'Africa della povertà, la creatività delle popolazioni ai margini rasenta la spregiudicatezza. E il chukudu, la bicicletta di legno, senza morbide manopole, senza comodi pedali, senza l'aiuto di fari e dei freni, senza una morbida sella, senza pneumatici di gomma, è uno di questi prodotti. Quando in quel meraviglioso angolo di globo terrestre conosciuto col nome di "Mille colline", compreso tra Ruanda e Burundi, ho visto sfrecciare, in una ripida e pericolosissima discesa, il mio primo chukudu e sopra il carico un bambino che lo governava, ho sgranato gli occhi e mi sono fatto il segno della croce.
Sembrava un proiettile sparato a razzo, mentre scendeva i tornanti della collina a rotta di collo, tenendo il bambino le mani strette sul manubrio con le due ruote di legno che ondeggiavano e scricchiolavano. Per frenare? Il tallone nudo del piede destro premeva una lingua di vecchio pneumatico che andava a rallentare la corsa della ruota posteriore.
Il ricordo dei chukudu delle "Mille colline", mi porta col pensiero al fenomeno odierno dei cosiddetti lavori flessibili, sempre più in espansione. Come quello dei "rider" della ristorazione a domicilio. Come sempre, ahimè, si prelevano parole dalla lingua inglese per rendere più raffinate e alla moda la più semplice semplicità.
Ed è così anche per i "ciclisti-fattorino". Quelli che sempre più spesso, e soprattutto la sera, vediamo sfrecciare, quasi sempre senza luci o catarifrangente che li segnali, con uno scatolone sulla schiena che contiene il cibo da recapitare a chi sta comodamente a casa seduto sul divano davanti alla tv. Pioggia, neve o solleone, senza assicurazione né assistenza per malattia né ferie, c'è chi pedala per 5 euro lordi a consegna. È la nostra Africa?
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