mercoledì 14 gennaio 2015
Aveva visto giusto Eugenio Montale quando, nella prefazione all'edizione Mondadori 1948 delle Parole di Antonia Pozzi, aveva segnalato due modi per intendere (o fraintendere) il libro della poetessa ventiseienne suicida nel 1938: «Si può leggerlo come il diario di un'anima e si può leggerlo come un libro di poesia». Montale già tre anni prima, in un articolo sul Mondo di Firenze, aveva privilegiato la seconda lettura assegnando ad Antonia un posto ben riconoscibile nel canone novecentesco. Col passare del tempo, però, per effetto della pur encomiabile e ammirata dedizione di suor Onorina Dino e di una rosa variabile di sue collaboratrici, c'è il rischio che l'interesse per "il diario di un'anima" oscuri l'attenzione critica che "il libro di poesia" meriterebbe. Innanzitutto, quale libro di Antonia Pozzi? Com'è noto, la poetessa non pubblicò nulla in vita: provvide suo padre, facoltoso avvocato milanese, a selezionare i manoscritti e a costruire la fama letteraria della figlia, mosso anche dal rimorso di aver procurato il più grande dolore alla pur amatissima Antonia, osteggiandone il matrimonio con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, di diciotto anni più anziano. Da notare, tra l'altro, che il professore cercò invano di risvegliare la sensibilità religiosa dell'allieva, che all'università si trovò più a suo agio nell'entourage razionalista di Antonio Banfi in compagnia di Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci.L'avvocato lavorò di forbici e di accetta sui testi di Antonia, e ne venne il libro del 1948, contenente 159 poesie. Col fervore delle ammiratrici, nell'edizione Mondadori 1964 le poesie erano già diventate 176, che nell'edizione "critica" Garzanti del 1989 arrivarono a 248. Decisamente troppe. Ho scritto fin dall'edizione di quell'anno che l'avvocato Pozzi dimostrò un encomiabile senso critico, analogo all'indispensabile lavoro di Pound su Eliot, e di Vittorini sul cognato Quasimodo. Con la smania di pubblicare "tutto" si è finito per rimettere gli smeraldi della Pozzi nella ganga da cui erano stati giudiziosamente estratti.Le vestali pozziane pubblicarono i Diari di Antonia (1988), poi a più riprese le sue Lettere: prima edizione Archinto 1989, seconda edizione ampliata Archinto 2002, e adesso Ti scrivo dal mio vecchio tavolo, Lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino (Ancora, pp. 392, euro 26), con nuove accessioni. Come dicono gli spagnoli, "Hay cariños que matan (Ci sono amori che uccidono)" e le curatrici insistono ad alimentare "il diario di un'anima", anziché la poesia di Antonia Pozzi.Le lettere inedite del nuovo volume sono, francamente, di non irresistibile interesse: cartoline e missive ai genitori (Antonia fu sempre tenerissima anche col padre), agli amici, all'amata nonna Nena, con particolari minimi sui grandi alberghi che frequentava, sui viaggi anche all'estero, sulle gite in montagna. Anche le tre lunghe lettera della Nena, presentate accuratamente da Marco Dalla Torre, studioso serio della poetessa, non sembrano una risposta adeguata alla richiesta di Antonia di fornirle materiale per il romanzo storico-familiare che aveva in mente di scrivere.Toccanti le lettere che alcuni amici scrissero ai genitori di Antonia dopo la sua morte. In particolare, quelle del filosofo Remo Cantoni, che fu il secondo amore, non corrisposto, di Antonia. Le lettere del terzo uomo della poetessa, il futuro professore di estetica Dino Formaggio, sono state pubblicate nel 2011 col titolo Soltanto un sogno, a cura di G. Sandrini. Dino, che allargò gli orizzonti di Antonia ai temi sociali, non corrispose al suo amore, e quel rifiuto non sembra estraneo al suicidio della poetessa, consumato il 13 febbraio 1938, presso l'Abbazia di Chiaravalle. A lui è dedicato questo frammento: «Dino caro, sono venuta a morire in un luogo che mi ricorda la nostra gioia di un'ora: Giugno, mezzogiorno, Abbazia di Chiaravalle e papaveri in fiore. Chiudo gli occhi con quell'immagine stretta al cuore - Anche tu ricordami solo col volto di allora. Addio».
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