mercoledì 9 luglio 2008
Come mai un libro di dolori, di struggimento, è da mesi in testa alle classifiche di vendita e, con la vittoria al Premio Strega, è destinato a circolare ancor di più? Stiamo parlando, naturalmente, della Solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano (Mondadori, pp. 312, euro 18), opera prima di un ventiseienne dottorando di ricerca in fisica teorica, e possiamo affermare con sicurezza che questo clamoroso esordio segna la nascita di un grande scrittore, anche se l'"opera seconda" non gli sarà facile.
Questa Solitudine è la storia di due incapacità di comunicare, al centro di rapporti senza comunicazione. Mattia e Alice si sfiorano senza toccarsi, appunto come i numeri primi che i matematici chiamano "gemelli" perché, nella serie delle cifre sono separati solo da un numero pari, che tuttavia ne impedisce la contiguità.
Entrambi hanno una piaga segreta. Mattia, da bambino, una sera ha abbandonato la sorellina gemella di cui si vergognava perché ritardata mentale: le aveva detto di aspettarlo, ma quando era tornato a riprenderla, Michela non c'era più. Inghiottita dal fiume, probabilmente. Il rimorso, il senso di colpa, spingono Mattia ai bordi dell'autismo, con riflessi autopunitivi gravi (si tagliuzza volontariamente le mani). Mattia è intelligentissimo, si laurea in matematica a 22 anni ed è subito chiamato a insegnare in un'Università baltica.
Alice bambina odia le gare sciistiche a cui la obbliga il padre autoritario: in un incidente si spezzerà una gamba, restando zoppa per sempre. Non perdonerà mai suo padre. L'anoressia è in agguato.
Giordano racconta per intervalli la storia di queste due separatezze, dall'infanzia fino ai trent'anni: 1983, 1984, 1991, 1995, 1998, 2003, 2007.
«Gli anni del liceo erano stati una ferita aperta, che a Mattia e Alice era sembrata così profonda da non potersi mai rimarginare. C'erano passati attraverso in apnea, lui rifiutando il mondo e lei sentendosi rifiutata dal mondo, e si erano accorti che non faceva poi una gran differenza»: in questa frase è condensata tutta la tragedia. Astri vaganti in un universo di pena e di non detto, le orbite di Mattia e di Alice, tangenti a intermittenza, non faranno che allontanarsi.
E come mai il lettore resta avvinto da queste pagine di patologia e tuttavia non disperanti? Perché Giordano, con esattezza chirurgica, descrive incomprensioni, cattiverie, errori, lasciando intatto uno sfondo di normalità morale: la vita che Mattia e Alice non sanno affrontare è volersi bene, darsi, perdonare, costruire la famiglia, generare i figli che Fabio, il solare marito di Alice vorrebbe, e che lei gli nega. Al di fuori di questo orizzonte c'è solo dolore e ancora dolore, il dolore di Mattia e di Alice, dei loro genitori, di Denis, il compagno di scuola innamorato di Mattia che conoscerà un lato squallido dell'omosessualità.
Quella di Giordano è una moralità che diremmo antifrastica, nel senso che ci mostra errori, colpe, devianze senza intaccare il quadro di riferimento, e il corrispettivo di dolore ne è il contrappasso sui personaggi verso i quali il lettore prova condivisione e compassione perché non ce la fanno, e soffrono, soffrono troppo.
Alla radice, c'è un'assenza: l'assenza di Dio. Soltanto un riferimento trascendente darebbe senso a queste vite tormentate, come a ogni altra vita. E anche questo ci sembra di cogliere, per antifrasi, dallo straordinario romanzo di Paolo Giordano.
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