mercoledì 3 maggio 2017
Eravamo in via Solferino, di Vincenzo Sardelli e Giuseppe Gallizzi (Minerva, pagine 288, Euro 16,90) è un grande atto d'amore. Amore per il giornalismo, per il “Corriere”, per Milano e per la Calabria, dove Gallizzi è nato nel 1939. È il racconto a quattro mani di quarant'anni di vita di Gallizzi al “Corriere”, a cui aveva incominciato a collaborare quasi ragazzo come corrispondente da Sesto San Giovanni, per poi diventare redattore, caporedattore della redazione Lombardia, caporedattore centrale, occupando incarichi nel Consiglio dell'Ordine, presidente per undici anni del Circolo della Stampa di Milano – nei saloni specchianti di Palazzo Serbelloni –, presidente per un triennio della Scuola di Giornalismo “Walter Tobagi”.
È un racconto piacevole, un manuale utile anche per le scuole di giornalismo, con ampi riferimenti all'etica professionale, e una larga messe di citazioni senza la puntigliosità dei riferimenti bibliografici.
Dopo la svelta prefazione di Vittorio Feltri, Vincenzo Sardelli, nella Premessa, richiama giustamente un altro grande calabrese, Corrado Alvaro, anch'egli del “Corriere”, che «pur rifiutando l'etichetta di meridionalista, non rinnegò mai il mondo poetico e morale di partenza».
Per Gallizzi, il giornalismo è soprattutto la cronaca: «Oggi per molti giornalisti fare carriera significa raggiungere il ruolo di editorialista, il giornalista che scrive articoli di fondo. Si crede che il bello e il massimo della carriera non sia fare il cronista, l'inviato speciale, ma essere insigniti dell'aureola di opinionisti che spesso sono chiacchiere di caffè in formato colto».
Il racconto si snoda seguendo la cronologia dei direttori. Luigi Albertini, il mitico fondatore e primo direttore che diede al “Corriere” la fisionomia e l'autorevolezza che tuttora più o meno conserva, si dimise nel 1925 per non sottostare al bavaglio della censura fascista. Straordinario il ritratto di Giovanni Spadolini, direttore a 43 anni, che «aveva una memoria di ferro e un'autostima che sconfinava talvolta nella saccenteria. Piccoli difetti che gli si perdonavano volentieri perché annullati da tante virtù». Fu Spadolini, fra l'altro, a coniare la fortunata espressione degli «opposti estremismi». Dopo quattro anni di direzione, fu licenziato su due piedi, senza spiegazioni: «Urlava per i corridoi che neanche una cameriera sarebbe stata trattata in quel modo». Fu l'iniziativa della proprietaria del “Corriere”, la politicamente sventurata (parola mia) Giulia Maria Crespi, che consegnò il quotidiano a Piero Ottone, ambiguo cultore dell'“obiettività”, talché Gallizzi non può fare a meno di ricordare che «uno come lui, che peraltro ha sempre rifiutato l'etichetta di giornalista di sinistra, sia andato a svernare in un giornale come “la Repubblica”, il cui fondatore giudica l'obiettività una mistificazione». Era il 1972, quando Montanelli lasciò il “Corriere” per fondare “Il Giornale”, portandosi dietro un manipolo di firme illustri.
A Ottone subentrò Franco Di Bella, un direttore che proveniva dalla cronaca, che a sua volta fu travolto dalla questione della P2. Gallizzi, con indulgenza, attribuisce l'iscrizione alla loggia di Gelli a un moto di ingenuità, comunque pagato caro. Ricorda che quando fu assassinato Walter Tobagi, «Di Bella e Barbiellin Amidei scrissero nell'editoriale del giorno dopo che era morto “un cronista buono”». Non precisa però che l'inedita forma dell'editoriale a quattro mani, firmato dal direttore e del vicedirettore, fu una prerogativa abituale del tandem Di Bella-Barbiellini, mai più ripetuta.
Arrivò Alberto Cavallari, che in qualche modo raddrizzò il periclitante “Corriere”. Poi vennero l'istituzionale Piero Ostellino, il cosmopolita Ugo Stille. Gallizzi è abbastanza severo con Paolo Mieli, che pure apprezza, e denuncia il “mielismo”, quell'atteggiamento camaleontico e trasversale detto anche “cerchiobottismo”. E ricorda che quando Agnelli disse che Mieli, assumendo la direzione del “Corriere” aveva messo la minigonna a una vecchia signora, «non era un complimento». L'ultimo direttore di Gallizzi è stato Ferruccio De Bortoli, con qualche divergenza di vedute.
Non si finirebbe di citare gli aneddoti, gli scoop, e anche un po' di gossip che rendono brillante il libro. Possiamo concludere con Gallizzi che «dall'alto di una storia di quasi un secolo e mezzo, nessun altro giornale italiano più del Corriere ha rappresentato, per utilizzare una formula di Gobetti, "l'autobiografia di una nazione"».
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