giovedì 23 novembre 2017
Lumière è, da sempre, il nome del cinema. Si può discutere finché si vuole di primogeniture e brevetti, di lanterne magiche e altri antenati. A rendere popolare quella che, all'epoca, non era ancora considerata un'arte ma una divertente bizzarria tecnologica sono stati loro, i fratelli Auguste e Louis Lumière, che una celebre foto ritrae insieme, inseparabili e sornioni, mentre si girano di lato per guardare qualcosa destinato a sfuggirci e, quindi, a incuriosirci ancora di più. Dentro e fuori l'immagine, al centro e ai margini dello schermo, dunque, come se l'inquadratura, fin dal principio, non riuscisse a fare fino in fondo il suo dovere. Anzi, come se lo scarto fra la realtà e la sua riproduzione – non importa quanto fedele pretenda di essere – sia una delle caratteristiche principali del cinema, se non addirittura il suo “specifico”, per riprendere un termine che si usava tempo fa.
Che cosa guardino Auguste e Louis non lo sapremo mai, così come continueremo a ignorare dove vada quell'uomo che salta in sella alla bicicletta per allontanarsi dalla scena tanto di fretta. Di primo acchito verrebbe da pensare che ci sia di mezzo la ragazza che, appena varcato il cancello, ha allungato il passo e se n'è andata sulla destra, nella stessa direzione poi presa dal ciclista. Ma forse no, forse quel tipo in baffetti e paglietta si accontenta di sfoggiare il suo bolide. Se volete verificare di persona, basta che cerchiate su YouTube L'uscita dalle officine Lumière, che con il suo mezzo minuto abbondante ebbe l'onore di aprire la prima proiezione pubblica della storia, avvenuta a Parigi il 28 dicembre del 1895.
È in quel momento che nasce il cinema, e nasce popolare, appunto. Non solo per la sua natura di intrattenimento sbalorditivo, fatalmente portato ad attirare ogni tipo di pubblico, ma anche e specialmente perché protagonista è una piccola folla quotidiana e perfino dimessa, nonostante il sospetto che le maestranze si siano vestite a festa in occasione delle riprese. Certo, è probabile che anche il nostro amico, il ciclista che va di premura, stia interpretando una parte. Ma quale? A chi appartiene il cane che passa più volte sullo schermo? Chi viaggia sulla carrozza tirata da due cavalli, uno nero e l'altro bianco, che chiude questa versione del cortometraggio? E, più che altro, come mai uno degli operai torna indietro, rientrando in fabbrica dalla porticina laterale mentre tutti gli altri sciamano dal portone spalancato?
Il primo film dei Lumière non risponde, né ha intenzione di farlo. Ci proveranno, a modo loro, le migliaia e migliaia di pellicole girate e proiettate da lì in poi, ma in questa sua aurora il cinema è ancora tutto incanto e meraviglia, una possibilità pressoché infinita che si squaderna sotto gli occhi degli spettatori. Potrebbe essere un'impressione, ma in questa scena le donne sono in maggioranza, alcune a testa nuda, altre decorosamente abbigliate con il loro cappello. A ciascun volto corrisponde una storia che ancora non conosciamo: amore, dedizione, tradimento, speranza, gioia, dolore, lacrime e sorrisi. Il cinema non si occupa d'altro che non sia la materia, umanissima, del sogno e dell'esperienza. Le immagini si consumano presto, qualche decina di secondi ed è già pronta un'altra scena. Presto, sullo schermo di quella memorabile première, l'annaffiatore annaffierà sé stesso, e tutti rideranno. Un anno più tardi, quando apparirà il treno che entra nella stazione di La Ciotat, qualcuno si farà prendere dal panico temendo di essere travolto dalla locomotiva. O così, almeno, vuole la leggenda. Difficile distinguere, quando si tratta di cinema.
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