sabato 29 giugno 2013
Estremi che non si toccano, ma fanno sorridere. Di recente qui (14/6) sulla notizia (“Corsera”, 8/6, p. 27) che il primo antenato dell'uomo è «l'archicebus achilles… 30 grammi e la taglia di un topolino», risalente a «55 milioni di anni fa». Sarebbe il primo gradino del primo “salto” verso gli antropoidi, da cui noi… Così piccolo? Già… Ti veniva in mente, sempre sorridendo, sant'Agostino che parlava di sé giovane, «Così piccolo e già così grande peccatore!», e sorridevi sulla fantasia delle pagine che dicono di offrire scienza, ma paiono baracchette di esibizioni quasi comiche. L'altro ieri ne è arrivata un'altra, ma opposta. Su “Repubblica” due paginone (38 e 39): «Balene di carta. Perché la letteratura ha bisogno di Moby Dick». No! Non hanno trovato la prima traccia dell'uomo nelle balene – altro che «30 grammi e la taglia di un topolino», nel caso! – ma, nero su bianco nel sommarietto, ci informano che «la vastità delle balene risveglia in noi sogni spaventosi di quando eravamo piccoli insetti». «Insetti»? Sì. Il saggista inglese Philip Hoare ha scritto un libro di 400 pagine con la sua versione della storia della letteratura di tutti i tempi tirata a lucido attorno alle balene: «Sinbad, Giona, Astolfo di Ariosto, Geppetto di Collodi, capitano Achab di Melville» ecc… Ed ecco la rivelazione: «Le balene semplicemente esistendo fanno vacillare la nostra identità autocompiaciuta». Vacilla la nostra «identità»? Vero che vedendo in tv i grandi cetacei resti a bocca aperta, affascinato, ma è lo stesso anche davanti al Niagara, al Ruwenzori innevato, alla Cupola di San Pietro o a un'eclisse di Sole: fascino dell'acqua, del biancore di neve, della fantasia di Michelangelo, o della fonte di ogni luce… Ma che c'entra la «nostra identità»? Boh!
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