giovedì 21 febbraio 2019
Oggi nel mondo, otto uomini – da soli – posseggono 426 miliardi di dollari, la stessa quantità di beni cioè detenuti dalla metà degli abitanti del pianeta, ovvero 3,6 miliardi di persone. È una costante che dura da anni inoltre, che l'1% più ricco dell'umanità detenga più denaro del restante 99%. I dati, inequivocabili nella loro crudezza, sono quelli del Rapporto Oxfam e fanno riflettere sul difficile binomio tra economia e giustizia. O meglio ancora, sulla possibilità che esista (o possa esistere) una ricchezza giusta, un "senso etico del denaro" che consenta di non considerarlo comunque e per forza un male o un pericolo, come la società, da sempre, ci ha abituato a pensare.
La principale rappresentazione simbolica del denaro già nell'iconografia medievale è una borsa che, appesa al collo di un ricco, lo trascina all'inferno. Lo stesso cammello che può passare per la cruna di un ago più facilmente di un ricco nel regno dei cieli, è una parabola quasi definitiva dal punto di vista sociale. Che mette in dubbio le (non così rare) esperienze di vita di benestanti capaci di condivisione e di larghezza d'animo.
La ricchezza come colpa, specie quando è accompagnata da villana ostentazione, è uno stereotipo difficile da contestare. Come invece diventa virtuosa e splendida l'esperienza contraria, il denaro che diventa strumento di carità, con la consapevolezza che ciò che abbiamo fatto solo per noi stessi muore con noi. E che ciò che abbiamo fatto per gli altri e per il mondo, resta ed è immortale.
La ricchezza che genera generosità, non solo economica, ma intesa come generosità di idee, di tempo da dedicare agli altri: questa può essere la chiave. Perché come scriveva Carl Gustav Jung, si sopravvive di ciò che si riceve, ma si vive di ciò che si dona.
Forse merita di non essere svilita però anche la ricchezza sana e orgogliosa, frutto del proprio lavoro e del proprio talento. È quanto viene in mente scorrendo le pagine di un interessante volumetto firmato da Francesco Fratantonio, brillante imprenditore, agronomo e presidente di una società di progettazione e finanza del Sud Italia, intitolato "Santo e Ricco, la benedizione dei nostri avi". «Che tu possa diventare santo e ricco» è infatti la potente preghiera di intercessione che da secoli i nonni della Contea siciliana di Modica rivolgono alle generazioni successive. Un augurio pieno, espresso e tramandato senza sensi di colpa o timori repressi.
Spiega l'autore: «Ho scoperto che essere ricchi significa lottare per la propria sicurezza economica ma anche per la propria indipendenza e realizzazione personale. Essere ricchi è credere in quello in cui molti altri non credono. È assumersi la responsabilità che altri non vogliono prendersi. È correre il rischio anche di sbagliare. È agire, invece che criticare da sterili spettatori. La ricchezza è capacità di generare vita, energia, di continuare la creazione. E la santità, quella vera, non ha paura di misurarsi con i beni e con il denaro. Anzi, secondo me è l'unico modo giusto di viverla. La santità è infinita ricchezza...».
“Santo e ricco” è l'antico invito – derivato dalla tradizione popolare e quindi tutt'altro che elitario – a non separare la ricchezza dal lavoro, a non contrapporre il subordinato all'imprenditore, il benestante al povero. «È costruire – si legge – percorsi di giustizia immaginando un benessere sostenibile per l'impresa, il lavoratore, il creato. Un benessere inclusivo, dove la ricchezza costruita con genio creativo e mantenendo il cuore libero, giusto e pulito non diventi mai ingiustizia e non debba vergognarsi di sé».
Non è sempre così, purtroppo. Anzi, lo è solo in rare e virtuosissime situazioni. Ma credere all'improbabile è sempre una splendida forma di ottimismo, e alimentare la speranza nell'eccezione è un meraviglioso schiaffo alla regola. Che ci può fare tutti più ricchi.
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