mercoledì 18 dicembre 2013
Può essere utile ripetere un piccolo esercizio spirituale. Ormai sono una costante del paesaggio mediatico (oltre che della realtà) gli arrivi per mare di disperati fuggiaschi dall'Africa e dall'Asia, dopo lunghi e pericolosissimi viaggi, spaventose traversate di deserti, infami quarantene in ricetti criminali dove si è esposti a ogni offesa. Ma c'è il rischio che quelle peripezie umane, al centro della storia del nostro tempo, vengano appunto assorbite dal paesaggio, fino a scomparire per assuefazione: che le richieste d'aiuto e gli urli di terrore dei moribondi diventino rumore di fondo. Per evitarlo può servire l'esercizio di cui parliamo. Basta un po' d'immaginazione: nell'assistere a quelle terribili avventure noi ne stiamo fuori, protetti da uno schermo poco costoso di pietà; dobbiamo invece tentare per un po' di viverle come in prima persona, mettendo noi stessi e chi più amiamo nei miserabili panni di tanti nostri simili assetati affamati terrorizzati: sulle vecchie barche stipate sino ad affondare (e infatti spesso affondano e molti affogano); dentro le carovane dominate dalla violenza che a prezzo di interminabili fatiche portano all'imbarco. E con alle spalle una vita che non consente alternative a un tale incerto e disumano transito verso una qualche minima, ignota speranza.
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