martedì 14 aprile 2020
Ricordate un vagone della metropolitana, all'ora di punta? Qualche decina di persone riunite nello stesso luogo ma non nello stesso spazio. Una delle tante moltitudini (uno dei possibili “nostri prossimi”) ciascuna a sé stante, isola disunita dal resto del mondo grazie a uno smartphone o a un tablet. Mi capita di focalizzarmi, in viaggio, su questo ormai abituale “panorama umano”, nello scontro tra solitudine e isolamento. Solitudine di chi si trova, e ne soffre, immerso in una miriade di suoi simili. E isolamento dei suoi simili proiettati ciascuno in uno spazio altro. Qualcosa che potrebbe simbolicamente indicare l'esatto contrario di “comunione”. Farci caso, anche in ambienti più vasti (una strada di città, ad esempio) è l'esperienza di uno straniamento sempre più “normale”. Talvolta, come birilli, ci si urta senza sollevare gli occhi dalla tastiera. Ricordo mia nonna, una cinquantina di anni fa, corroborare le sue sentenze con un “lo ha detto la televisione”. Era l'inizio di un processo. Se, allora, con l'invasività delle immagini a tutti comune, si cercava un principio approssimativo di autorevolezza, oggi, il display si sostituisce automaticamente alla realtà. Con l'apparente vantaggio, e l'abissale pericolo, che ciascuno si blindi nella propria, di realtà.
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