mercoledì 4 luglio 2018
Tale era l'amore di Stendhal (Henri Beyle, 1783-1842) per l'Italia e per Milano in particolare, che fu lui stesso a dettare l'epitaffio in italiano per la sua tomba, nel cimitero parigino di Montmartre: «Arrigo Beyle / Milanese / Scrisse / Amò / Visse / Ann. LIX. M. II». I tre volumi dell'epistolario stendhaliano pubblicati da Aragno col titolo Il laboratorio di sé per complessive 2352 pagine (euro 35 cad.), a cura di Vito Sorbello, sono un giardino, anzi, una foresta in cui è meraviglioso smarrirsi. Le lettere vanno dal 1800 al 1821 e mostrano che Stendhal ha superato brillantemente la ritrosia che gli faceva scrivere a Romain Colomb: «La vergogna di vedere un indiscreto leggere nella mia anima leggendo le mie carte, mi impedisce dall'età della ragione, o piuttosto per me della passione, di scrivere quello che sento, o meglio gli aspetti sotto cui vedo le cose, aspetti che potranno apparire divertenti al lettore se, per caso, ha un'anima malinconica e folle come la mia» (4 novembre 1834). È l'eterno problema degli scrittori che sanno che le loro lettere verranno presto o tardi pubblicate, e forse lo desiderano o auspicano; dunque, gli scrittori fanno letteratura anche quando scrivono ai congiunti o ai colleghi. Quando non c'erano le fotocopie, gli scrittori chiedevano ai destinatari di restituire gli originali delle lettere a loro indirizzate, e qualcuno (Saint-John Perse, per esempio) ha riscritto le proprie lettere in vista della pubblicazione. Insomma, non si può pretendere una completa sincerità nelle lettere degli scrittori, ma che importa? Alla fine, conta pur sempre la letteratura. Colpisce, nell'epistolario stendhaliano, quanto viaggiasse l'autore della Certosa di Parma. Prendiamo, per esempio, il 1810: il 24 maggio Stendhal era a Parigi, il 9 giugno a Grenoble, il 16 luglio ad Amsterdam, il 4 agosto di nuovo a Parigi, il 24 agosto a Lione, il 17 settembre a Madrid… e non c'erano né aerei né Frecce rosse. Non mancano le notizie personali anche intime: «Sono innamorato di una donna che mi ha dato la scoliazione [blenorragia], e fiaccato col balsamo di copaina [un medicinale specifico]» (8 febbraio 1820). A Varese, lo scrittore si annoia: «Passo la mia vita con dei bravi borghesi che si occupano tutto il giorno del prezzo del grano, della salute dei loro cavalli, della loro amante e del loro casino». Tuttavia, «ho trovato un po' di consolazione nella chiesa della Madonna del Monte; mi sono ricordato della musica divina che vi ho ascoltato un giorno» (16 novembre 1818). Quanto alla letteratura italiana, Stendhal ha un'eccessiva ammirazione per Vincenzo Monti, che definisce «il Racine d'Italia, genio nell'espressione» (9 aprile 1818); «Non vedo niente in Francia di comparabile a Monti e a Goethe» (24 ottobre 1818), e offre un'apertura di credito al giovane Alessandro Manzoni, alle prese con la sua irrappresentabile e irrappresentata tragedia Il Conte di Carmagnola: «Questa Morte di Carmagnola è in stampa e desta la più alta aspetazione [sic]» (2 novembre 1819). Non senza riserva mentale: «Il merito del romanticismo è di somministrare a un pubblico la giusta droga che gli farà piacere. Il merito di Manzoni, se merito c'è perché non ho ancora letto niente, è di aver scelto il sapore dell'acqua di cui il pubblico italiano ha sete. Se Manzoni riesce, avrà una gloria immensa, e tutta una generazione di giovani poeti italiani si scervella da dodici anni per fare una tragedia differente da Alfieri, e non trova niente» (21 dicembre 1819). Fin da subito, dunque, i più entusiasti manzoniani sono coloro che non l'hanno letto. Non sembra che Stendhal si sia accorto dell'esistenza di Giacomo Leopardi. I critici si dividono nel valutare i rapporti tra l'opera letteraria di Stendhal e la sua voluminosa corrispondenza. Mi sembra che la parola giusta l'abbia trovata proprio Vito Sorbello: «La Corrispondenza come organo regolatore degli scambi tra esterno e interno, tra avvenimenti e coscienza, tra vita e opera, tra creazione di sé e creazione dell'opera».
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