domenica 30 novembre 2003
Ho ricevuto il mio invito alla festa di questo mondo; la mia vita è stata benedetta. I miei occhi hanno veduto, le mie orecchie hanno ascoltato. In questa festa dovevo solo suonare il mio strumento musicale: ho fatto come meglio potevo la parte che mi era assegnata. Ora chiedo: è venuto il momento di entrare, o Signore, di guardare il tuo volto e di offrirti il mio silenzioso saluto? Affidiamo la nostra riflessione in questa prima giornata di Avvento alle parole di un poeta indiano tanto amato in Occidente, Tagore (1861-1941). È una meditazione sulla vita e sulla morte. Una vita accolta e consumata con "intensità", vedendo e ascoltando, con la consapevolezza di avere una parte da adempiere, una musica da suonare perché l'armonia generale non avesse smagliature. Quella di Tagore è un'interpretazione positiva dell'esistenza, concepita come una festa che talora può essere turbata dalle prove ma che non cessa di essere un itinerario gioioso e fiducioso. È con questa prospettiva che anche la morte acquista un altro profilo. Non è il baratro del nulla ma un incontro. Si apre una soglia, ed ecco venirci incontro il Signore: noi finalmente lo guardiamo faccia a faccia e non più per immagini o riflessi, lo contempliamo coi nostri occhi e lo ascoltiamo non più per sentito dire, come diceva Giobbe nel momento dell'abbraccio finale con Dio (42, 5). Lo salutiamo con la nostra invocazione ed egli ci risponde: «Vieni, Signore Gesù" Sì, verrò presto!» (Apocalisse 22, 20). È con questo spirito che il nostro cammino verso la fine del nostro tempo e il cammino dell'intera umanità verso la meta ultima della storia non sono una corsa fatale ma un approdo sereno, nella pace e nella luce di Dio.
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