mercoledì 8 marzo 2017
Tom Wolfe, il dandy eccentrico vestito di bianco da gennaio a dicembre (completo tre pezzi, cappello e bastoncino), scrittore e giornalista di successo, inventore di neologismi entrati nell'immaginario collettivo (il termine radical-chic l'ha coniato lui), ai suoi verdi 86 anni ha scritto un libro vistosamente e giustamente elogiato da Lucetta Scaraffia sull'Osservatore romano: Il regno della parola (Giunti, traduzione di Irene Annoni, pp. 192, euro 18).
È un libro godibilissimo (chiedo scusa per l'aggettivo, arbasinianamente sdato), che mette il dito (anzi, tutto l'avambraccio) nella piaga immedicabile dell'evoluzionismo, ipotesi o cosmogonia che non sa piegare l'origine del linguaggio.
Wolfe la prende alla lontana, ripercorrendo la contesa a distanza tra Alfred Russel Wallace e Charles Darwin su chi dei due avesse per primo formulato la teoria dell'evoluzione (delle "trasmutazioni", come inizialmente si diceva): il primato spetta a Wallace, ma Darwin contava sull'appoggio degli accademici, e il verdetto fu di sostanziale parità. Ma sarà proprio Wallace a denunciare, successivamente, le falle dell'evoluzionismo, incapace di spiegare perché fin dall'inizio «il potere del cervello umano si estendeva talmente al di là dei confini della selezione naturale che il termine diventava insignificante nel dar conto delle origini dell'uomo».
Wolfe racconta la storia con la sua consueta spigliatezza suffragata da ineccepibile documentazione, e diventa irresistibile nello smontare il castello del linguista darwiniano Noam Chomsky, celeberrimo per i suoi studi e per l'impegno politico nell'ultrasinistra durante la guerra del Vietnam e dopo.
Dapprima Chomsky aveva sostenuto che l'uomo nasce con "l'organo del linguaggio", proprio come il cuore e i reni. Il sistema linguistico era dunque biologico, innestato sulla "struttura profonda" di una "grammatica universale" alla quale sarebbero riconducibili tutte le lingue. Nel 2002, Chomsky perfezionò la sua linguistica con la "teoria della ricorsività": la ricorsività, secondo Chomsky, «consiste nell'inglobare una frase – un pensiero – dentro un'altra, in una serie che, in teoria, potrebbe essere infinita». Questo meccanismo originario sarebbe comune a tutte le lingue.
Nel 2008, però, il linguista Daniel Everett pubblicò Non dormire, ci sono i serpenti, il racconto dei suoi trent'anni come missionario evangelico a contatto con i pirahã, tribù amazzonica primitiva il cui linguaggio, che inglobava anche il canto degli uccelli, mandava a monte ogni "ricorsività". Secondo Everett, il linguaggio non si era evoluto da niente, ma era uno "strumento culturale" che l'uomo aveva realizzato per sé.
Il libro di Everett, scientifico e avventuroso, ebbe grandissimo successo anche di pubblico. Chomsky mobilitò la comunità scientifica contro l'antico allievo, ma la diga della "ricorsività" era ormai sbrecciata. Altri studiosi trovarono il coraggio di allinearsi a Everett, e finalmente, nel 2014, un saggio firmato da 8 linguisti, fra i quali Chomsky stesso, intitolato Il mistero dell'evoluzione del linguaggio, ammetteva che l'evoluzionismo si ferma di fronte all'"enigma" del linguaggio.
Il linguaggio, conclude Wolfe, «è stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente – l'uomo – ha preso elementi dalla natura – i suoni – e li ha trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale: sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole»; «Il linguaggio, e soltanto il linguaggio, dà all'animale umano la possibilità di fare progetti non solo a lungo termine, ma di qualunque genere, foss'anche per i successivi cinque minuti»; «Il linguaggio, e soltanto il linguaggio, ci ha permesso di conquistare ogni palmo di terra di questo mondo»; in breve, è il linguaggio, e soltanto il linguaggio, a rendere uomo l'uomo.
L'ultima frase del libro va memorizzata con un sorriso: «Dire che gli animali si sono evoluti nell'uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto nel David di Michelangelo».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI