domenica 4 febbraio 2018
In quel cielo blu, senza nuvole, schiavo di robusti cavi d'acciaio che lo tenevano frenato alla terra, lo si riusciva a distinguere a parecchi chilometri di lontananza. Stava sopra la mia testa, più o meno a duemila metri d'altezza, nel bel mezzo della volta celeste. Aveva una scritta cubitale grigia, che ne dichiarava la paternità: “Us army”.
Era una “balena” piantata nel cielo che riusciva a scrutare ancora più lontano, in grado di captare un bisbiglio e vedere attraverso la notte più buia. Aveva il compito di vegliare sulle minacce armate contro la base militare avanzata “Isaf” (International security assistance force) di Farah, nell'Afghanistan occidentale.
Moby Dick era un dirigibile. Un “Isr” (Intelligence, surveillance and reconnaissance), in grado di galleggiare su una specifica area per tre settimane e scrutare tutto attorno a sé. Un'arma ad alta tecnologia e un angelo protettore per il migliaio di soldati, tra marines americani e parà italiani, presenti nel campo.
L'aerostato militare era in grado di catturare, così mi fu spiegato, l'istante in cui avviene l'accensione di un fiammifero a un bel po' di chilometri di distanza. Così che, in pochi secondi dall'allarme, la minaccia viene resa inoffensiva con una controrisposta armata.
Stare nella base di Farah, era un po' come stare a “Fort apache”. Una caserma tendata, muri di terra, rigide brande, tanta sabbia e molti rifugi prefabbricati di cemento armato. Perché, nonostante il “grande occhio”, qualche colpo di mortaio, un'arma facilmente trasportabile, aveva già osato violare l'area dell'accampamento.
In una guerra non di eserciti, ma di combattenti che impiegano un gran numero di piccole unità per colpire in direzioni diverse, come fanno i taleban, vigilare, giorno e notte, dispiegando tutta la potenza tecnologica di cui si dispone, può risultare una fatica che si disperde nel tempo e nello spazio.
E così, nonostante queste sempre più avanzate tecnologie militari, e chissà quante ancora quelle tenute segrete, a quindici anni e più dall'inizio dell'operazione “Enduring freedom”, che avrebbe dovuto pacificare e stabilizzare l'Afghanistan, il Paese rimane terra di combattimento e sofferenze. Eredi dei mujaheddin che negli anni Ottanta si opponevano all'occupazione sovietica dell'Armata rossa, costringendoli poi alla ritirata, oggi i taleban, ancora vanno in battaglia calzando sandali di plastica anche se c'è la neve.
I recenti attentati terroristici contro l'hotel “Intercontinental” di Kabul, la sede di “Save the Children” a Jalalabad, e il massacro di cento civili nel centro della capitale usando diabolicamente un'ambulanza imbottita di esplosivo, stanno a dimostrare che la pace per il popolo afghano è lontana. Mentre dobbiamo aspettarci una recrudescenza di violenza, con le offensive di primavera della guerriglia taleban, e tanto per non farci mancare nulla, anche dei combattenti del Califfato islamico.
Proprio quest'anno cadono i trent'anni dal ritiro russo dall'Afgfhanistan, e trentanove anni dall'inizio di questa tragedia. Ma era nel 1838 quando, alla vigilia della spedizione militare britannica di quella che è ricordata come la Prima guerra afghana, il duca di Wellington, comandante in capo dell'esercito, lanciava la sua profezia: «Le conseguenze della scelta di varcare il fiume Indo per instaurare un governo in Afghanistan le pagheremo con una marcia che non finirà mai». Quattro anni dopo, ci fu la disastrosa ritirata da Kabul, che costò la vita a 4.500 soldati e 12mila civili loro familiari. Fu risparmiato un solo uomo. Lasciato vivo per testimoniare la notizia del disastro e di quanto fossero tenaci le tribù afghane nel rendere l'Afghanistan un cimitero per gli invasori.
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