giovedì 22 luglio 2004
Abbiamo due occhi. Con uno contempliamo le cose del tempo, quelle effimere, che scompaiono. Con l'altro contempliamo le cose dell'anima, quelle eterne, che persistono. Si chiamava Johannes Scheffler, ma è noto con lo pseudonimo di Angelus Silesius, ossia "angelo della Slesia" ove nacque nel 1624 e morì nel 1677, dopo essersi laureato in medicina a Padova. Convertitosi dal luteranesimo al cattolicesimo, ci lasciò un capolavoro poetico tedesco, Il pellegrino cherubico (ed. San Paolo). Fermiamoci su questi suoi versi dedicati alla duplice visione che è aperta davanti all'uomo. Da una parte, la preziosa ed esaltante esperienza della vista fisica che registra il mondo esteriore coi suoi colori, i movimenti, le forme, i volti e i paesaggi. Gli occhi del corpo segnalano eventi che accadono nel tempo in modo irreversibile, pronti a sparire nell'abisso del "mai più", sospesi quindi sul vuoto del nulla. D'altra parte, però, noi siamo capaci di un altro sguardo che penetra oltre la superficie delle cose, oltre la pelle e la carne del nostro corpo, oltre le frontiere del tempo e dello spazio. È quella visione che possiamo chiamare contemplazione e che curiosamente nell'ebraico della Bibbia è espressa con un verbo che significa letteralmente "scavare". Con quel secondo occhio noi vediamo un altro orizzonte che non ha limiti, quello dell'eternità e dell'infinito, dell'anima e di Dio. La realtà là non si estingue, ma permane. Purtroppo, però, come accade all'occhio fisico, anche la vista spirituale può appannarsi e persino offuscarsi e questa cecità interiore è ancor più pericolosa dell'altra.
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