venerdì 3 settembre 2004
Ci sono due generi di disperazione: quello superbo di chi rigetta la speranza che la patria cui anela possa farsi anche via, e quello di chi "si ritira" da ogni desiderio e speranza, di chi si nasconde al loro morso. Ho letto, nella quiete dello scorso mese, l'ultima opera del filosofo Massimo Cacciari, che considero anche un amico importante e stimato. S'intitola Della cosa ultima (Adelphi) e, come altri scritti del pensatore veneziano, è sontuosa e ricchissima di spunti, costruita tra l'altro in una forma molto originale di dialogo. Naturalmente sono tanti i temi e i passi che mi hanno colpito ma
è difficile ritagliare le poche righe per il nostro spazio minuscolo. Ho scelto, così, solo un frammento minimo recidendolo dal suo contesto. L'argomento non è frequente nel "Mattutino" ed è quello della disperazione. Due sono, quindi, i modelli di questa tempesta che travolge l'anima. Il primo è la scoperta che la meta sia in realtà irraggiungibile: la patria tanto attesa non può farsi via per arrivarci. Molti, infatti, nella vita (e questo vale anche per la religione) intuiscono la bellezza e il fascino di un grande progetto ma, appena muovono i passi per raggiungerlo e attuarlo, capiscono quanto faticosa sia la strada e pesante l'impegno e così si bloccano. Il secondo genere di disperazione fiorisce in chi non si lascia più "mordere" dal fremito, dal desiderio e dalla speranza e si affloscia in un grigiore e in un'inerzia che è già la morte. Diceva il poeta Péguy «disperare è la cosa più facile, è sperare la più ardua e impegnativa».
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