mercoledì 21 ottobre 2009
Non teme reazioni apotropaiche dei lettori don Pierluigi Plata, che ha intitolato il suo libro Pensieri durante un funerale (Àncora, pp. 96, euro 10); basta il sottotitolo, «Domande che interpellano la fede», per tranquillizzare e anche per spiegare che si tratta di una riflessione sui Novissimi, dunque di attualità nell'approssimarsi del mese di novembre. In effetti, come scrive Silvano Zucal nella prefazione, «se c'è un argomento davvero latitante nell'autocomprensione cristiana è proprio quello escatologico, a partire dal mistero della morte e della vita dopo la morte». Con stile piano e perfetta ortodossia, Pierluigi Plana, sacerdote bresciano al momento direttore spirituale del seminario maggiore dell'Ordinariato militare in Italia, offre pacate risposte alle grandi domande che affiorano dalla rimozione proprio quando ci si trova davanti alla bara di un amico, di un familiare, di un collega defunto: avrei voluto fare di più per lui, ora è proprio troppo tardi? Che cosa resterà di lui? Che cosa si intende con «anima del defunto»? Tutto quello che ho fatto, dove va a finire? Che cosa faranno i defunti nell'attesa della fine del mondo? Perché preghiamo per i nostri defunti? Santi, martiri, defunti: quale rapporto hanno con noi vivi? Queste sette domande corrispondono agli altrettanti capitoletti in cui si articola il piccolo libro che, in controtendenza, attinge al Catechismo della Chiesa cattolica, oltre che ai documenti del Concilio Vaticano II. Ho detto «in controtendenza» perché nella bibliografia teologica e nella pubblicistica pastorale non è frequente, purtroppo, veder citato il Catechismo, le cui smaglianti definizioni surclassano, per profondità, sintesi, fascino linguistico, tanti borborigmi della saggistica religiosa up to date. Particolarmente centrati da Plata mi sembrano due delicatissimi argomenti: il rapporto anima-corpo, e la problematica dello «stato intermedio». Sul primo punto l'autore sa prendere le giuste distanze sia dal monismo antropologico di certe pagine dell'Antico Testamento, in cui la conclamata unità della persona rende problematica la sorte dei defunti nello Sheol, sia dal dualismo platonico che finisce per comportare una svalutazione del corpo. Plata correttamente afferma con la Chiesa che, essendo la morte separazione dell'anima dal corpo, l'«io» della persona continua a sussistere nell'anima, pur reclamando la ricomposizione della persona con la risurrezione del corpo. In tal modo viene fatta luce anche sul mistero dello «stato intermedio» dei defunti, cioè lo spazio fra la morte e la risurrezione finale: la permanenza dell'«io» rende ragione sia del duplice giudizio (personale e universale), sia del corretto rapporto di ricordo e di preghiera per i defunti, contro ogni sensazionalismo di fenomeni paranormali e di metempsicosi, nella consolante unità della comunione dei santi. Equilibrato è l'autore anche riguardo la salvezza. Mentre respinge ogni forma di apocatastasi (amnistia generale secondo cui tutti i defunti verrebbero reintegrati nell'originaria visione beatifica), è altrettanto sospettoso sulla meritocrazia retribuzionista, quasi che la buona vita e le buone opere esigessero contrattualmente la beatitudine eterna: la redenzione e la salvezza sono pur sempre un dono, anche se «la relazione che noi abbiamo ora con Dio, e quella che lui ha con noi, non viene interrotta dalla morte, ma neppure dobbiamo illuderci che se ne instauri magicamente una nella vita eterna se precedentemente non ne esisteva alcuna». Come si vede, tanti formidabili problemi sono sfiorati in questo piccolo libro, utile premessa di ulteriori approfondimenti e salutare invito a pensieri non frettolosi mentre si portano fiori sulle tombe dei propri cari.
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