martedì 23 dicembre 2014
Decine di richieste, nove casi esaminati, due provvedimenti di rimozione dal Web. I primi in Italia. È il bilancio iniziale dell'applicazione nel nostro Paese della sentenza con la quale il 13 maggio la Corte di giustizia europea aveva introdotto il «diritto all'oblìo» su Internet, ovvero l'obbligo per Google – il più diffuso motore per la ricerca di informazioni online – di cancellare contenuti relativi a una persona ben identificata che non siano di pubblico interesse, o non lo siano più, se il protagonista ne fa motivata richiesta. È un piccolo passo, ma di formidabile portata simbolica: per la prima volta si riconosce che non tutto quel che circola su Internet a nostro nome deve restare come fosse scolpito nella pietra, e che se esibiamo buoni motivi perché dal Web sparisca un episodio, una notizia, un documento che ci riguarda possiamo ottenere che ne sia cancellata ogni traccia con un procedimento che si chiama «deindicizzazione»: una ricerca su Google, in altre parole, non troverà più nulla. In un tempo nel quale si parla con una certa leggerezza di "nuovi diritti", facendone superficiale scialo, quello all'oblìo online appare come un diritto essenziale che nasce dalla proliferazione incontrollata di fonti: ogni utente della rete è un produttore di contenuti, a dosi omeopatiche o industriali. E l'eruzione di parole in rete espone chiunque al rischio che sul suo conto circolino informazioni «prive di pubblico interesse». Ora è possibile chiedere a Google di «deindicizzare», e se si rifiuta ci si può rivolgere al Garante per la privacy. Che con le prime due sentenze di "rimozione forzata" ha mostrato come il diritto all'oblìo, ora, sia una realtà.
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