domenica 15 dicembre 2019
Dimissioni, che parolaccia. La folla ribolle, i tifosi ululano. I manifestanti sfilano a migliaia, incuranti delle minacce e delle cariche. Ma i capi, i leader, i presidenti, i premier, i capoccioni non si dimettono, no, mai. Solo in rarissimi casi che suscitano stupefatta incredulità. Ma come, siamo riusciti a farlo dimettere? Non ci credo...
Non hai capito che è finita, che devi andartene, che ogni minuto con il didietro ancorato allo scranno è un danno a te, alla società, al partito, alla nazione, all'umanità tutta? Hai fatto il tuo tempo, ne hai combinate troppe, basta. Però è vero, non hai tutti i torti a volgere lo sguardo stranito verso coloro che un dì ti avevano eletto, nominato, designato tra lo scrosciar degli applausi e adesso ti volgono le spalle compatti. Ti hanno lusingato, dandoti sempre ragione, ridendo alle tue barzellette mediocri, approvando ogni tuo atto, anche poco ragionevole, forse perché – è un dubbio che or ti abbruna la fronte – se loro ti ricoprivano di elogi, tu li ricoprivi di prebende, promozioni, aumenti di stipendio. Forse. Chissà. Potrebbero aver individuato qualcuno simile a te, da innalzare sullo stesso trono e poi tramutarlo in altare per un nuovo sacrificio. Nel frattempo, dimissioni mai!
In Italia, si dice, nessuno si dimette. Vero. Ma non che all'estero sia tutta questa gran rincorsa alle dimissioni. Si resiste: in Europa, Asia e Americhe. L'essere umano è fatto così, salvo le solite ottime eccezioni: una volta assaporato il calice inebriante del potere, l'idea di doverlo cedere fa impazzire. Qualunque potere: del premier del grande Stato al segretario generale del famoso partito al presidente della bocciofila. Il popolo, gli iscritti, i tesserati protestano invitandoti ad alzare i tacchi? È un complotto, una congiura, sono stati fuorviati da forze malevoli che manovrano nell'ombra più oscura ma non vinceranno e le loro tresche saranno smascherate. Oh sì.
È un autentico morbo quello che le dimissioni avrebbero la pretesa di debellare. Anziché detenere un potere per servire la nazione, l'azienda, il partito, l'associazione, il circolo ricreativo, e quindi essere io a servire quel potere che oggi c'è ma da un momento all'altro potrebbe non esserci più, è il potere a servire me. Accade che all'inizio la folla ti osanni. Ti illuda di essere invincibile e infallibile. Quello è il momento chiave: o sei dotato di senso della misura e autoironia, e rimani sobrio, o credi davvero a quel che ti fanno credere e t'inebri di te stesso: in questo secondo caso, la richiesta delle dimissioni suonerà come un'ingiustizia inaccettabile da respingere senza indugio.
Dal Libano a Malta a Hong Kong, gli ultimi mesi sono stati la cronaca carica di tensione, e talvolta grottesca, di dimissioni reclamate, respinte, accolte, semplicemente ignorate. Quando vengono richieste a causa di un presunto scandalo, se il soggetto in questione le rassegna subito, sorge il dubbio che sia innocente e proprio per questo ritenga insopportabile l'idea di vivere per giorni e mesi sotto una simile pressione. Chi poi si dimette di fronte alle prove inconfutabili della propria insipienza o corruzione, continuerà per il resto dei suoi giorno a fare il martire, dichiarandosi l'agnello sacrificale di una congiura di palazzo.
E allora va bene, ammettiamolo: a nessuno piace rassegnare le dimissioni, neppure quando le dà senza troppe storie, con classe. E quasi nessuno ha lo stile e il british humor di un Winston Churchill che se la cavava dichiarando: «Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate». Poi accade che, vinta la guerra, gli inglesi gli votano contro mandandolo a casa.
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