mercoledì 22 dicembre 2021
La frase di Arthur C. Clark, posta in esergo alle Storie del mare di Diego Gabutti (Gog, pagine 240, euro 17,00), è quanto mai opportuna: «È inappropriato chiamare questo pianeta Terra, quando chiaramente è Mare». E un inno al mare, all'oceano, sono i venti capitoli (più un prologo e un epilogo) di questo libro che parla di naufraghi, naviganti e Leviatani, in un caleidoscopio di letteratura, cinema e mitologia. Si comincia con l'Ararat, il monte su cui sarebbe approdata l'Arca di Noè, mettendo a confronto le reminiscenze bibliche con l'Epopea di Gilgameš dove un Utanapishtim sarebbe una sorta di Noè mesopotamico: «Come in un videogame, l'Arca ha varcato una porta dimensionale e il suo equipaggio, animali e marinai, è sbarcato in una Creazione alternata. Agli occhi di questi “disastronauti”, per dar loro un nome appropriato, la nuova Terra è l'equivalente d'un orologio liquefatto di Dalì. Sono finiti oltre lo specchio». Questa frase dà un'idea dello stile di Gabutti, tra l'onirico e l'erudito. «Principe dei naufraghi» è Robinson Crusoe, nel romanzo pubblicato da Daniel Defoe nel 1719. Inaspettatamente, «a Robinson Crusoe non piace il mare. Del mare, anzi, Robinson ha paura; vi si arrischia raramente; lo spia dalla spiaggia, sperando che una nave s'affacci d'un tratto a vele spiegate dall'orizzonte ottico». E Gabutti considera l'operosa sobrietà robinsoniana dal punto di vista economico, con la sua puntigliosa contabilità. Se ne accorse Marx, che scrisse: «Il naufrago ha bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori utili di vario genere. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti del lavoro umano. Proprio la necessità lo costringe a distribuire esattamente il proprio tempo fra le sue diverse funzioni. Questo glielo insegna l'esperienza, e il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di sé stesso». Ecco, dunque, Crusoe arruolato nella rivoluzione industriale capitalista dell'800. Nelle storie di mare non potevano mancare i pirati, e Gabutti dedica un capitolo a Libertatia, «la “comune” ucronica di Capitan Mission cantata da William Burroughs nei suoi ultimi romanzi». Capitan Mission, viene da A General History of the most Notorius Pirate, opera d'un certo capitano Charles Johnson, forse pseudonimo di Daniel Defoe medesimo: questa General History apparve nel 1724, pochi anni dopo Robinson Crusoe. Capitan Mission, scrive Gabutti, «è un Che Guevara del XVI secolo, recuperato da gruppuscoli pisquani e gazzette tardogoschiste». Ne accenniamo qui perché Gabutti dichiara di non aver mai letto la General History consentendoci così di tirare un sospiro di sollievo. Perché la sterminata bibliografia delle Storie del mare mette in soggezione, e sapere che Gabutti almeno un libro non l'ha letto è di conforto.
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