giovedì 19 marzo 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 8

Ti sento ridere con un‘amica, di là, nella tua stanza. Parli al telefono, spessissimo in tempi normali, troppissimo in questi giorni di coprifuoco. Trattengo il fiato per non far rumore, per continuare ad ascoltarti mentre ridi: perchè mi fa stare meglio, mi convince di una normalità che ho paura di perdere.

Tu non hai paura, o se ce l’hai non lo dici. Come tutti i giovani che si sentono immortali, e che finchè si sentono così, lo sono davvero. Sono io che ho un timore forte, peggiore di quello del virus. Ho paura che tu mi chieda perché. Perché tutto questo sta accadendo. Non avrei risposte: quando pensi di averle tutte, la vita ti cambia le domande.

Ho paura che tu mi chieda perché a 18 anni devi vivere da reclusa. Perché devi sentire ogni giorno la conta dei morti se non siamo in guerra. Perché mentre per anni tutti ti hanno spiegato cosa dovevi fare e cosa no, adesso nessuno può dirti l’unica cosa che vorresti sentire: quando tutto questo finirà.

Il calendario dice che oggi è la festa del papà, io però mi chiedo che padre sono se non posso fare di più. Sono il tuo autista quando torni a casa tardi di notte, il genitore tra i due che per debolezza fa sempre la parte del buono, quello che può permettersi di essere distratto e superficiale grazie alla mamma che è l’esatto contrario. Oggi sento che non basta, che sono inadeguato, che ti meriti altre risposte. O almeno che ti chieda scusa. Perché un padre deve essere affidabile, non perfetto. Ma i figli più che farci felici, devono essere felici. L’ha detto Madre Teresa, una che di peste se ne intendeva.

Certo, non è colpa mia se questa sciagura ci ha assaliti. Ma questo è il mondo che ti ho offerto, con una benda sulla faccia e i guanti sulle dita. Nel momento più sbagliato per te. E’ l’anno della tua maturità, ti meritavi un esame diverso. Invece ti sta piovendo addosso come un mattone che ti obbliga a crescere con un bozzo in testa. Ti meritavi un’estate diversa, senza confini chiusi, senza aria sporca. Volevo darti il permesso di viaggiare, invece devo darti l’ordine di chiuderti qui. Scusami.

Un proverbio Zen dice che nella vita bisogna fare almeno tre cose per essere felici: avere un figlio, scrivere un libro, piantare un albero. Mi manca l’albero. Ma mi mancherebbe più di tutto non sentirti ridere al telefono, troppissimo e ancora. Continua così, per favore. Mi serve per avere la mente più serena per preparare le risposte.

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