mercoledì 22 aprile 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 42

La prima parola che mi viene in mente è: rispetto. Per favore. E per i morti che ancora non sa frenare. Milano non merita la vendetta di nessuno, perché Milano è sempre stata generosa con tutti. E lo è anche adesso che sta male, inginocchiata e con la testa china che non trova un parrucchiere, ferita ma non vinta, ammalata degli insulti che riceve insieme alla regione che le sta intorno. Abbiate rispetto per questa signora che soffre e che ora infangate con un ghigno, che non riesce a venirne a capo ma che fino a ieri era il capo. E che era anche il vostro mito e sul quale adesso vi accanite, come fanno le formiche sul corpo dell’elefante agonizzante.

Entrambe non capiscono perché devono piangere ancora e più delle altre, ma Milano e la Lombardia sanno che il virus le ha prese di mira da subito. E se altrove è stato una tempesta, qui è stato uno tsunami. Hanno sbagliato senz’altro, come non può non farlo chi viene assalito dal panico. Ma non fate paragoni con i numeri, per favore. Perché confondete voi stessi e la matematica, il buon senso e il lutto di chi ha fatto tanto e meglio che poteva, e ora deve sopportare anche lo scherno di chi dice che ha agito poco e male.

Amatela ancora invece, e di più se potete. Amatela anche se ha costruito in fretta un ospedale che ora è un fantasma. Non deridetela perché se ne è vantata tanto e adesso quel posto è vuoto: quando l’ha tirato su in un amen c’erano medici disperati che non sapevano dove mettere i malati. Facile parlare dopo, senza chiedersi cosa si sarebbe detto se non si fosse fatto nulla prima. Amatela anche se ha un ricovero per anziani che è diventato un lazzaretto, come cento altri dei quali non si parla, perché il re che sbaglia fa notizia e quando capita al suddito di un’altra sponda non c’è gusto, né bava che cola.

Amatela per quello che era, e ancora sarà questa Milano governata da un sindaco con i calzini a righe arcobaleno in una regione con un governatore verde: non guardate i colori, per una volta, guardatele in faccia. Adesso quello conta. Cerotti e amore, non polemica e nemmeno fazzoletti. Milano è fatta così, troppo dignitosa per piangerti addosso, troppo orgogliosa per chiedere aiuto.

Non lo ammette ma ha bisogno di affetto per tornare a riempirsi, perché il vuoto le fa male. E si merita calore, come quando il mondo la affollava parlando cento lingue diverse e guardando in alto il bosco che cresce sul grattacielo, il metrò che arriva subito, i ragazzi che aperitiveggiavano sui Navigli, i malati che venivano a guarire qui, negli ospedali che ora è di moda dileggiare ma che torneranno a cercare quando tutto tornerà più o meno come prima.

Non porterà rancore comunque, riaccoglierà tutti. Sa bene che “Milano e poi basta” non basterà più, ha capito di non essere invincibile, ha imparato che dovrà ripensare la sua ambizione, la sua narrazione che la vuole sempre prima in tutto, modella un po’ altezzosa e vogliosa di farsi guardare.

“#Milanononsiferma” era una bugia enorme, perché anche i grandi meccanismi sono fatti di persone, non solo di lavoro, di vetrine, di marchi ricchi e di fiere. E le persone scivolano, si inceppano, diventano polvere quando la tempesta è mostruosa. Ma la gente che la abita merita solidarietà e affetto per quello che ha dato, un sole che la faccia rifiorire, una spolverata di amore sulle sue ferite aperte, sulle sue strade lucide, sul suo cuore grande. Milano da bere in fondo, era lo slogan di un amaro. Ora serve zucchero.

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