lunedì 20 aprile 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 40

Era giovedì, c’era il sole. L’ospedale era quello di Codogno, un paese del lodigiano. Pochi sapevano dove fosse, ma da allora lo abbiamo nominato più volte di New York. L’uomo di 38 anni pare che fosse andato a cena con un collega rientrato dalla Cina. Pochi giorni dopo diventava il “paziente uno”, il primo italiano contagiato. Lui si è salvato, noi non sappiamo.

Era il 20 febbraio, sembrano passati due anni, non due mesi esatti. In sessanta giorni in Italia sono morte 24.000 persone, un settimo delle vittime di tutto il mondo, otto volte i morti delle Torri Gemelle, 200 volte quelli degli anni del terrorismo. Due mesi dopo, dicono, ci siamo abituati a non inorridire di fronte alla strage quotidiana, che continua. Dicono anche che dovremo convivere con il virus per molto tempo, quanto non si sa. Come non sappiamo cosa troveremo di preciso quando riapriremo quella porta. Perché siamo come delle molle pronte a scattare: quando finirà il sottovuoto compresso del coprifuoco, torneremo nella posizione abituale. Ma ci toccherà ripopolare il mondo. E non sarà una liberazione, perché non sarà facile.

L’emergenza è lo scenario cronico del nostro futuro. Di certo sarà più semplice per chi sta in città: probabilmente mancheranno i ritmi di prima, ma il contesto aiuta: la gente, i confini più larghi, gli impulsi multipli. Sarà diverso nei piccoli paesi, quelli dove se ne sono andati il sindaco, il parroco, il maestro, il medico condotto, il postino. E la generazione di quelli che giocavano a carte al bar davanti a un bicchiere mezzo pieno. Non sarà più neanche mezzo vuoto, non sarà a basta. E lì veramente cambierà il mondo.

A tutti gli altri toccherà la maschera, come quella di Arlecchino, sulla bocca però, non sugli occhi. Arlecchino non la indossava per avere un altro volto, ma per non averne nessuno. Noi dovremo portarla per forza, ma occorrerà togliersela per rifiatare. E dire che ci sono momenti in cui bisogna trovare in fondo a noi stessi la parte migliore che siamo in grado di offrire.

Il momento è questo. Anche se le scuole non saranno ancora riaperte, ci accorgeremo che non esiste il Cepu della buona vita. E che il contagio che fa perdere il gusto e l’olfatto non deve farci perdere la vista per quello che conta per ripartire senza ammalarci di nuovo. La condivisione dei doveri e dei diritti, la redistribuzione delle risorse e delle opportunità, la lotta ai privilegi. E che la politica è prima di tutto fare bene una strada, un asilo, un ponte. Dire la verità. Agire nella legalità. E pensare a un po' di futuro con giusta proporzione di ossigeno, immaginazione, ideali.

Vale la pena di dirle, anche se sono solo parole. Perché due mesi dopo abbiamo così fretta di tornare che ci siamo già dimenticati di cosa non ci piaceva prima. Servirebbe un vaccino anche per recuperare la memoria.

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