martedì 14 aprile 2020

Parole in libertà, in giorni senza libertà: chiusi per virus, non possiamo fare. Ma possiamo continuare a pensare…

Giorno 34

Pasqua è passata, e un bilancio lo si può già fare. Cercando di essere pacati perché, parafrasando La Rochefoucauld, in questi tempi difficili è opportuno concedere la nostra amarezza con parsimonia, tanto numerose sono le occasioni per provarla.

Dunque, alla faccia dei censori da tastiera che sbandierano indignati foto di code risalenti ad anni fa o in prossimità dei posti di blocco, i trasgressori del coprifuoco nel week-end della grigliata sono stati il 5%. Ergo, siamo stati bravi al 95%, e gli altri non eravamo noi. In casa da 34 giorni, quasi tutti siamo stati ubbidienti. Abbiamo stampato una mezza dozzina di ordinanze diverse, ci siamo messi in fila senza fiatare anche per andare in bagno, abbiamo atteso che arrivasse Conte una sera sì e una pure che neanche Babbo Natale lo aspettiamo così. Abbiamo fatto la spesa una sola volta la settimana caricandoci come muli alpini. Abbiamo girato mille farmacie alla ricerca della mascherina, quella altruista però perché noi siamo fatti così. Continuiamo a struggerci dalla finestra per la nostra macchina parcheggiata in strada e ricoperta di guano. Ci siamo commossi per i medici, abbiamo sentito storie terribili, tutti abbiamo pianto per un parente o un amico o un conoscente che non ce l’ha fatta. Abbiamo digerito parole ancora più brutte di quello che significano (distanziamento sociale, lockdown) perché in emergenza accetti anche l’assurdità del lessico. Abbiamo sopportato gli hastag più inutili di chi senza non sa più scrivere, come #iorestoacasa (bravo, ma non è una scelta perché #seescitiarrestano) e quelli ormai scaduti, come #andràtuttobene. Con 20.500 mila morti possiamo già dire che non è andata benissimo.

Da cinque settimane, soprattutto, non abbiamo diritto di abbracciare mamme, papà, nonni e nonne, ma ce lo siamo imposto stracciandoci il cuore e fidandoci del cervello. Concludendo, non sappiamo se quando finirà saremo davvero diversi, ma di certo saremo di meno.

Con tutto questo però ora abbiamo almeno diritto a un risarcimento. Non prestiti da investire in tasse, ma investimenti in fiducia. Solo a questo serve la politica: offrire chiarezza, pensare al futuro con proporzione e competenza. Adesso ci occorrono speranze fondate e verità spietate. Ci serve capire quello che nessuno spiega, ad esempio perché si continua a morire anche stando barricati in casa: non per curiosità, ma per morire un po’ di meno. Abbiamo investito nei sacrifici, e ora non possiamo accontentarci dei vedremo, dei se la situazione lo consentirà, dei fino a nuovo ordine. Vorremmo un piano vero, almeno quello, per tenere il gruppo unito e vivo.

Noi più di qualcosa abbiamo già dato: ora abbiamo bisogno di programmare, e avere progetti per essere ricompensati. È uno dei meccanismi della sopravvivenza. Per ora invece ci fanno sapere solo che riprenderemo a lavorare e a vivere scaglionati, senza rendersi conto che in quella parola c’è una lettera sbagliata. Perché se hai un piano, non ti arrendi: se invece devi comperare una vocale per vivere, è già finita prima di cominciare.

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