mercoledì 12 marzo 2008
Ieri ("Repubblica", pp. 1 e 50-51) 3000 anni di teologia demoliti in 3 pagine. Eugenio Scalfari affronta «Il peccato originale" enigma tra teologia e filosofia». Per lui il racconto biblico è «un'affascinante favola», atto nascente della coscienza umana, ma «pieno di incongruenze», prima e fondamentale «l'ingiustizia di Dio». Guarda infatti al successivo messaggio cristiano " incarnazione, morte e resurrezione di Cristo, salvezza nella fede e nella Chiesa " e formula così l'obiezione essenziale: «Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio, e quelli nati in luoghi dove il messaggio evangelico non è mai arrivato devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza?». Seguono lunghi ragionamenti su peccato e soggettività, escursioni sul Limbo, sulla realtà di persona attribuita ad embrioni e feti, per arrivare ad un finale sorriso ironico su millenni di vana «teologia che si perde in architetture varie» di penalità, indulgenze, sottomissione gerarchica, sacramenti e altro, ma senza alcun frutto. Di qui la conclusione demitizzante e liberatoria: coscienza, libertà, possibilità di male e bene sono solo il fondamento della soggettività dell'uomo sospesa nell'enigma universale circa il tutto, l'unica che gli fa dire «Io» e lo rende capace di scegliere tra solidarietà ed egoismo come tra bene e male. Che dire? Una sola cosa: proprio giusta, quella domanda di fondo? Davvero per la fede cristiana è salvo solo chi nasce «dopo» Cristo, e in luoghi dove il messaggio evangelico è già arrivato? Non è così, e non si dialoga tra «Io» sordi. Prima un aggiornamento di ascolto reciproco, poi si ragiona.
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