domenica 22 settembre 2019
Il guaio è che non c'è più la polemica. Finita. Morta. Kaputt. La polemica seria, arguta, raffinata, non per ammazzare e seppellire l'avversario con gusto sadico ma alzare sempre più il livello della disfida fino a vette sublimi e poi, magari, dichiarare il pareggio, stringersi la mano e riconoscere reciprocamente il valore dell'avversario, che continuerà ad avere torto marcio, ma avrà anche la nostra stima.
Povera polemica, stramazzata sotto i colpi del discredito. “Ma come sei polemico”, “basta fare polemica”, “polemica sterile e vuota”... Tutte espressioni che gettano pessima luce sulla polemica. Chi fa polemica passa per un attaccabrighe il cui unico scopo è rompere le scatole e far perdere tempo. Le persone polemiche sembra conducano il confronto in un pantano, in un movimento circolare che non va da nessuna parte, mosse solo dalla vanità, in una retorica vuota.
Cattiverie. Qualcuno fatto così c'è di sicuro, ma è un ben misero polemista, anzi non lo è affatto. Non ha la cultura della polemica, ne ignora la storia, non ha lo spirito a un tempo feroce e gentile del polemista cortese. In greco, polimicòs significa “attinente alla guerra”. La polemica è dunque una contesa puramente verbale dove mettere in campo argomenti seri sostenuti da una dialettica arguta, con repliche e controrepliche che un tempo erano addirittura in metrica (da cui il “rispondere per le rime”), quando a scuola si imparava a smontare e rimontare le poesie e la gente, oltre a illudersi di saperle scrivere, era così umile e curiosa da leggerne. Oggi ci si limita a insultarsi e chi alla fine esplode nell'insulto più sanguinoso, o riesce a mobilitare i sodali in uno tsunami di insulti che annichilisca l'avversario, gode del proprio superiore potere e s'ingrassa della propria ignoranza. Le repliche fondate sull'ironia non sono comprese, quindi la contesa finisce prima di cominciare.
Eppure, di questo avremmo bisogno: sane polemiche, sull'esempio di Schlegel: «Quando la ragione e la non ragione si toccano, si ha una scarica elettrica. E questo si chiama polemica». E chi si irrita, ti affibbia un “polemico!” e chiude il discorso? È probabile che abbia ragione Benjamin Rush, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti: «La polemica è temuta solo dai sostenitori dell'errore». Già, chi teme la polemica? Diffidiamo dei sostenitori ululanti di una “verità”, anche e soprattutto in ambito cattolico. Quelli che “verità nella carità” è robaccia per buonisti modernisti, e carità finisce dietro alla lavagna a meditare sulle proprie mollezze. In realtà, più strepitano e abbattono l'avversario, meno sono sicuri della loro “verità”, che se fosse “vera” non avrebbe bisogno dell'ascia bipenne ma basterebbe a se stessa; al massimo, andrebbe abbellita di un sano spirito polemico, uno spirito perduto ma che potrebbe risorgere. Come?
Bisognerebbe togliere alla parolina “polemica” il velo negativo e diffamante che vuole trasformarla in parolaccia. Bisognerebbe accettarne le regole antiche di “battaglia verbale cortese, senza quartiere ma anche gentile”. Invece è usata come facile randello da chi è messo alle strette, la sua “verità” vacilla e allora se ne esce con un “ma come sei polemico”, “insomma, basta polemica”. Ciò vale anche per l'informazione. C'è chi di fronte alla polemica, forse saggiamente, forse per evitare guai con l'editore, fa un passo indietro e si sfila. Bisognerebbe invece essere temerari (o scriteriati?) come Ugo Ojetti e il suo guanto consumato: «Nelle polemiche sui giornali la sola difesa valida è l'assalto». Lasciateci andare alla carica come i 600 a Balaklava. E, alla fine, brindare con gli avversari, orgogliosi e ammaccati.
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