giovedì 15 febbraio 2018
Sono sempre stato dalla parte del generale Kutuzov contro Napoleone, anche se non nego il fascino dell'Imperatore francese. Dopo Lev Tòlstoj, furono le icone della Galleria Tret'jakov di Mosca a farmelo capire: Trinità degli Angeli, Madonne della Tenerezza, San Giorgi in lotta contro i draghi. Mi colpì la densità dei colori: il rosso, un'ultima fermata di sangue rappreso; il verde d'erba intravista fra le giunture del legno; il giallo che saluta l'oro; il nero a strisce quasi fosse il completo di un giocoliere; l'azzurro celeste delle Vergini. Restai incantato di fronte ai gruppi di arcieri in sella ai cavalli di Novgorod, una sfilata di elmi, corazze e visi accesi. Era tutto simbolico: nasi, occhi, mani giunte nella preghiera, espressioni femminili. Un griglia semantica entro cui l'artista, come un pesce nell'acquario, compiva le sue evoluzioni. L'uomo moderno, nel fraintendimento della libertà, si è scagliato contro questo sistema spirituale preordinato fino a godere della propria solitudine, ma la Russia, ancora oggi, ti fa sentire che tale degustazione di una presunta autonomia non può che trasformarsi, a lungo andare, in uno stridulo falsetto. Senza il supporto strutturale della tradizione, l'umanesimo nel Terzo Millennio rischia di diventare un urlo rauco e disperato.
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