mercoledì 24 giugno 2020
Dice Manlio Sgalambro, uno degli spiriti filosofici più acuti e spiazzanti tra la fine del secolo scorso e l'attuale, che «In realtà il delinquente rappresenta l'Essere di cui si parla, nei palazzi del sapere, in modo altisonante» (2012). L'affermazione, come è tipico dell'autore apparentemente paradossale, è non solo corretta, ma estensibile a quasi tutti i campi della conoscenza speculativa umana, fuori dai palazzi e non necessariamente «in modo altisonante». Ma se ne parla. Pensate alla Divina Commedia di Dante. Quanti conoscono benissimo l'Inferno e come, allo stesso tempo, il Paradiso sia, a parte l'ultimo canto, forse il più bel passaggio in versi dell'umanità, considerato, anche tacitamente, noioso. Perché il delinquente è, infine, suo e nostro malgrado, il motore della crescita umana. Se Eva non avesse ascoltato quel delinquente del Serpente, assecondandolo e facendosi complice dello stesso assieme al suo compagno, che ne sarebbe di noi? E non è forse l'inizio di quello che noi chiamiamo Storia l'assassinio di Abele da parte di Caino. Da allora, la Storia è stata una storia di delinquenza. Ma attenzione alle parole di Sgalambro: non parla semplicemente di "Essere", ma «Essere di cui si parla»: l'essere ciò sottomesso al linguaggio e quindi al volere, alla volubilità del «parlessere» (Heidegger). Solo nella preghiera e nel silenzio non vi è traccia di delinquenza.
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