giovedì 3 novembre 2016
I Padri dicevano che la sazietà rende la mente stupida e pigra. Io aggiungerei che rende la vita povera e sterile in un arroccamento che giocoforza sarà ribaltato dalla forza dell'esistenza, che per fortuna ha strumenti per cercare di svegliarci fino all'ultimo dall'anestesia cui tanto, inspiegabilmente, aneliamo.
Vi sono figure dell'economia che valgono per lo spirito. La rendita di posizione ad esempio. Uno degli ostacoli principali al dialogo, all'incontro. L'etimologia di rendita ha in sé il concetto di rendere indietro, restituire. La perversione sta nella convinzione che non siamo noi a dover ridistribuire in qualche modo il dono che ci è stato fatto, ma che siamo noi a dover passare alla cassa. Complice la presunzione di aver dato un contributo essenziale alla visione, tanto essenziale da aver reso la visione debitrice nei nostri confronti. La vitalità della evoluzione di una storia sta nella sua intrinseca dinamicità cui è impossibile sfuggire, perché struttura stessa del percorso dell'esperienza. Per una sorta di contrappasso l'uomo tende a cercare di fissare il proprio cammino in cartoline statiche dei momenti in cui si sente appagato e di cui intende vivere di rendita. Di una rendita passivamente illusoria, che possa mettere fine ad ogni fatica, ad ogni scommessa, ad ogni scelta rischiosa. Una rendita, una sorta di premio di un percorso che evidentemente si sente finito, e di cui si vogliono riscattare i benefici pratici.
Il male in sé non sono i benefici, non sono le posizioni acquisite o il potere ricevuto. Il male è lo stato d'animo, la predisposizione che li sottende. La rendita di posizione è la decisione di non mettere più a frutto i beni ricevuti, rimettendoli in gioco. Sarebbe diverso se la intenzione fosse quella di un reddito di posizione. Il reddito presuppone lavoro, investimento in nuove imprese, in una storia che si rigenera nell'apertura verso l'altro. Perdere la capacità progettuale, la capacità di lavorare su di sé e con gli altri, per esercitare invece unicamente il peso delle proprie acquisizioni, è la fine di ogni storia, per quanto grande, di cui si sia fatto parte. Per una strana ma solo apparente contraddizione, il lavoro, il reddito sono la chiave per la libertà , mentre la rendita, che sembra liberare, uccide e rende schiavi. Schiavi di una cristallizzazione che è profondamente antagonista dell'umano e della pedagogia dell'esistenza per come è stata disegnata.
Ciò che caratterizza coloro che sono passati dal reddito alla rendita è lo sguardo ormai cieco, indifferente, assunto quando reincontrano una qualche vitalità, una qualche storia genuina e gioiosa. Personalmente lo riconosco molto spesso e mi stimola tristezza mista a rabbia. Tristezza nel vedere come lo status possa togliere la vista, rabbia per la perdita repentina di gratitudine e memoria di chi ha avuto tanto e nulla intende ridare indietro. Ogni moto autentico dello spirito non è più stimolo, momento di incontro che può portare a nuova relazione, ma pericolo destabilizzante che mette a rischio le proprietà acquisite, da cui si pretende solo rendita e non riscatto. È tale e tanta la paura di coloro che hanno acquisito una rendita che si tirano indietro molto prima che succeda qualcosa di minimamente vicino a una nuova reale sfida di vita. Questa difesa precoce è la forma più profonda di avarizia, che nel tempo si anticipa così tanto da diventare forma di paralisi dello spirito e del corpo. Non si agisce più, non si pensa più, se non nei binari consolidati delle proprie rendite. Vera e propria fuga dalla libertà. Nell'arte e nella fede tutto ciò è ancora più irrazionale e contradditorio, vie di una libertà possibile, che non ammettono rendita, ma solo costante lavoro, costante apertura, costante rimessa in gioco della propria incrollabile speranza.
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