mercoledì 29 maggio 2019
Alberto Mattioli, giornalista della “Stampa”, ha messo in libro il suo trasporto affettivo per i gatti, intitolandolo Il gattolico praticante. Esercizi di devozione felina (Garzanti, pagine 122, euro 15,00). Sul gatto, a partire dagli antichi egizi che lo veneravano, è stato detto praticamente tutto: l'indipendenza, l'arte di non fare nulla se non dormire, alimentarsi, svagarsi, pur senza dimenticare il suo istinto predatorio. Borges, grande estimatore e compagno di gatti, ha detto tutto in un'unica frase: «La tua schiena accondiscende la carezza lenta della mia mano. Hai accolto, da quella eternità che è già oblio, l'amore di una mano timorosa. Sei in un altro tempo». Mattioli sviluppa il tema in fin troppe pagine di un piccolo libro, ed è chiaro che non parla al gatto ma all'umano che si lascia ammaestrare dal gatto: perché è sempre l'indolente ed elastica tigre da salotto a condurre il gioco. La parte più debole sono gli elenchi delle cose da fare o non fare ai gatti, elenchi che sembrano divertire più l'autore che il lettore. A non essere Flaubert, i cataloghi delle idee ricevute diventano subito inventari di banalità. Fra l'altro, Mattioli ritiene che il gatto sia pulito perché si lecca continuamente, ma da Adolf Loos abbiamo appreso che il gatto, notoriamente nemico dell'acqua, non fa che spalmarsi lo sporco. Tendenzialmente pulito è invece il maiale, che si voltola nel brago perché non ha altro a disposizione; se avesse una piscina si tufferebbe estasiato come un ippopotamo o un delfino. Non mancano gli aneddoti curiosi. Per esempio, Chateaubriand, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, racconta nelle Memorie d'oltretomba, che Leone XII riceveva gli ospiti tenendo in grembo il suo gatto. Quando il papa morì ci fu imbarazzo in Curia per la non prevista figura protocollare del gatto del pontefice: «Che farne? Poi qualcuno dev'essersi ricordato che l'ambasciatore di Francia, oltre che autore del Génie du Christianisme, era anche un gattolico credente e praticante: da qui l'idea di regalargli Micetto, diventato quindi Micettò». Lo scrittore, tornato in Francia dopo le dimissioni, si portò dietro il gatto, e ne parlava con affetto anche a Madame de Récamier. Un capitolo è dedicato alle città “gatte”: Parigi, Istanbul, Gerusalemme, Roma, Venezia, Amsterdam; un altro alla “Musica del miao”, ed è offerta una campionatura di dieci gatti nella storia dell'arte. Nelle ultime pagine, una lettera della gatta Isolde: «Ho diciassette anni, che più o meno equivalgono ai vostri ottantacinque. Sembro sempre una micina perché, scusa l'immodestia, nonostante tutto quello che mangio resto minuta come sono sempre stata, e riesco ancora a spiccare salti altissimi e a far passare dei brutti quarti d'ora a chiunque si muova a portata di zampa. Però capisco che fra non molto mi trasferirò in un altro luogo, anzi in un'altra dimensione. Non posso dirti dove, è un segreto anche questo. Voi umani dite che andiamo sul ponte dell'arcobaleno, credo che sia una metafora perché alla fine vi dispiace quando scompariamo, ma mi piace: il ponte dell'arcobaleno suona bene». Congedo poetico appropriato.
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